100 anni di Greta Garbo, da ragazza povera a diva infelice

  • Postato il 18 maggio 2025
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Lo storico del cinema Georges Sadoul gli rimproverò un certo “melodramma” e il “lieto fine”, ma nello stesso tempo riconobbe come Die freulose Gasse (La via senza gioia, 1925), del viennese George W. Pabst, fosse quel film grazie al quale la dura realtà sociale del Primo dopoguerra entrava nel cinema espressionista tedesco.

Mostrava “una scena ormai familiare in tutta l’Europa centrale da dieci anni”. Quale fu la scena che, una volta vista, nessuno avrebbe più dimenticato? È quella di “una fila di massaie dimessamente vestite davanti alla porta di una macelleria” (George Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli, trad. Mariella Mammalella, 1964).

Donne che attendono l’intera notte in fila per sperare in un etto di carne che non ci sarà per tutti. Una di loro, Grete Rumfort (la diciannovenne bellissima, sguardo di ghiaccio, Greta Garbo), che vive con padre vedovo, pensionato, e sorellina affamata, durante l’estenuante fila notturna sviene (per la fame) ed è soccorsa da alcune donne. Perde il suo posto, viene riaccompagnata in casa, non essendo in grado di camminare. Senza cibo.

Siamo a Vienna nel 1921. All’inizio del film una didascalia ha ricordato allo spettatore come è la vita di quattro anni prima: in città vivono due “categorie” di cittadini: “la maggioranza muore di fame, e un piccolo gruppo di borghesi si dà alla bella vita; non mancano corrotti faccendieri”.

Il padre di Greta, intanto, convinto da un funzionario di banca, ha investito la sua liquidazione della pensione in titoli bancari dati in crescita. Purtroppo sarà vittima di una rete disonesti banchieri e azionisti che faranno cadere le azioni dopo 24 ore. Rumfort perde tutto.

Piove sul bagnato. Grete, impiegata, una mattina viene chiamata nell’ufficio dal suo datore di lavoro: il grasso e untuoso uomo le si avventa addosso senza complimenti. La ragazza si difende: “Bestia!”. Licenziata.

La famiglia Rumfort è costretta ad affittare una stanza, per mangiare. Si presenta un giovane tenente americano, Davy (Einar Hanson), a Vienna con il Programma di Aiuto Internazionale post War. Ha deciso di vivere nella periferia povera della capitale “per capire meglio chi realmente ha bisogno di aiuto”. Grete, non avendo idea di quanto chiedere per l’affitto, propone 10 dollari: Davy, sorpreso, non può accettare: gliene offre 60 perché ha chiesto in giro e quello è l’affitto giusto. Davy e il suo sottoposto, un caporale, si trasferiscono nella ampia camera in affitto.

Alcuni sguardi riservati tra Davy e Grete, soprattutto gli occhioni della Garbo (ancora un po’ legnosa nella recitazione) spalancati e fuggevoli, colti mentre evitano di incrociare lo sguardo, già infatuato, di Davy, dicono allo spettatore che qualcosa potrebbe germogliare tra il sicuro, rispettoso ufficiale americano e la indigente, ma fine e splendida, viennese.

Un giorno la sorellina di Grete sottrae due barattoli di confettura di frutta. Il caporale si lamenta con Davy. Il padre, chiamato dal suo studio, offeso, risponde, alterato (è nervoso per aver perso tutti i soldi): “La mia bambina non è una ladra!”. E sentendosi offeso interrompe il contratto. I due americani si preparano a lasciare la camera.

Grete, non convinta della innocenza della sorellina, sapendo che le piace la frutta in barattolo, novità per Vienna, cerca e trova, in una scansia del salone, i due barattoli. Lo dice al padre: questi crolla sulla poltrona, per un leggero infarto. Lei si affretta nel corridoio per scusarsi prima che i due vadano via, ma ormai hanno deciso.

Senza uno scellino, Greta accetta il lavoro in un locale in cui deve “intrattenere”, con abiti succinti, i clienti. È nel camerino. La spregiudicata proprietaria del Cabaret, la signora Greifer, le ha fatto indossare, a fatica, un abitino succinto, smanicato, con ricamini a maglie larghe, modello “si vede/non si vede” quello che c’è sotto. È seduta su uno sgabello, si copre le spalle nude. È imbarazzatissima. Non ce la fa a uscire in sala.

In montaggio alternato vediamo il padre in casa. Apre una lettera: la banca ha ricevuto 60 dollari e non procederà in tribunale nei riguardi del signor Rumfort. Egli chiede subito alla bambina dove sia Greta, “al Cabaret”.

Nel frattempo, nella platea del locale, tra i tavoli, ondeggia una massa di uomini alticci, immersi nel fumo, con negli occhi l’acceso desiderio di “conquistare” le soubrette e vivere la nottata. Per un attimo si apre la porta del camerino e Davy, tra i clienti, per “dimenticare” Grete, la scorge.

Si precipita nel camerino e la aggredisce verbalmente: “Che ci fai qui?”. “Debbo salvare la mia famiglia dalla fame”. “E dove sono i miei 60 dollari?”. Grete, non risponde, china la testa su un braccio, questo poggiato su una mensola, nasconde il volto. Davy sta uscendo, schifato. Arriva il padre e mostra a Davy la lettera della banca in cui si parla dei 60 dollari che gli hanno impedito la causa. Riconciliazione. Davy abbraccia Grete: “Ora dovremo vivere insieme”.

La via senza gioia (qui nella versione rimontata, dopo il suo successo internazionale della “Divina”: manca la storia parallela di una sfortunata ragazza vicina di casa) non è un capolavoro, ma ha degli aspetti positivi. La severa analisi sociale, come anticipato sopra, di taglio etico-socialista era, per il 1925, all’avanguardia nell’Europa occidentale.

Mostrare la miseria del popolino, i ricchi dalla bella vita nei locali e la corruzione finanziaria, significava avere del coraggio nella sceneggiatura per poi “passare” il visto di censura (che comunque esisteva in tutti gli Stati democratici), rischiando tagli. Ma i produttori conoscevano il rischio: dunque, il film con temi “scottanti” veniva ambientato in un altro Paese e in un altro periodo (si veda la famosa serata “allegra” accennata in A Woman of Paris, 1923: Charlie Chaplin alludeva chiaramente alle orge con, talvolta, qualche delitto, di Hollywood: ma siccome si parlava di Parigi…).

Qui siamo in Austria, nel 1921. Inoltre, non va dimenticato che la Repubblica di Weimar garantiva quella libertà di espressione che, purtroppo, con l’avvento di Hitler, sarebbe stata soppressa.

Aspetti stilistici. Die freudlose Gasse fondeva insieme, felicemente, elementi fotografici espressionisti, da kammerspiel (interni claustrofobici: casa, ufficio, cabaret: scarsamente illuminati), con ridotti esterni (ricostruiti in teatro), in cui la via del macellaio era quella di un abitato poverissimo (e qui ci vediamo una reminiscenza del quartiere popolare nel capolavoro Der letzte Mann di Friedrich W. Murnau, che l’anno prima aveva sconvolto esteticamente tutto il cinema tedesco).

La scenografia è davvero parca e rimediata, non abbiamo la cura degli interni hollywoodiani, appunto, di un A Woman of Paris. Ma tant’è: lo spettatore è catturato dal dramma sociale della giovane Grete e dall’amore interrotto sul nascere tra la angelica ragazza e il bel tenente.

Pabst tenterà di far rimanere la lunare e glaciale svedese Greta Garbo a Berlino, ma il connazionale della promettente attrice, Mauritz Stiller, colui che l’aveva lanciata nel cinema svedese (era una commessa di quindici anni: aveva solo un corso di recitazione teatrale alle spalle e un paio di commedie) con La saga di Göstha Berling (1924), se la portò a Hollywood. Nel 1926 con Flesh and the Devil (La carne e il diavolo, di Clarence Brown) Greta Garbo e John Gilbert mettevano in scena la passione come mai si era visto nel cinema.

La ragazza povera e timida di La via senza gioia sarà tanti altri personaggi, quasi tutti senza lieto fine. “Donne che secondo le concezioni comuni, erano così funeste per l’ordine prestabilito che non meritavano di finire lietamente i loro giorni” (Mario Verdone). Da La carne e il diavolo, passando per Matha Hari (1931), Queen Christina (1933), e Anna Karenina (1935) sino a Camille (Margherita Gauthier, 1936) per lei il destino sullo schermo “era quello di soffrire spesso di morire” (Verdone).

Uno dei rari happy ending che il pubblico ricorda e apprezza è quello di Ninotchka (1939, Ernst Lubitsch), la commissaria sovietica inviata a Parigi per studiare la vita capitalistica che si innamora di Leon (Melvyn Douglas) e, a fine missione, torna tristemente a Mosca. Il finale, a sorpresa, le permetterà di raggiungere il suo innamorato a… Costantinopoli.

Garbo, nota ancora Verdone, “la diva per eccellenza […] per poco non realizzò anche un film in Italia, nel 1949, La duchessa di Langeais con James Mason, di cui erano già stati disegnati scene e costumi. Le iniziative andarono per le lunghe. Greta Garbo, che aveva soggiornato in un Hotel in Trinità dei Monti, riparti insoddisfatta”.

Nei molti anni in cui visse da sola, ritirata in un appartamento di Manhattan, sotto il nome di Harriett Brown, la sua malinconia e il voler essere dimenticata, furono crescenti. Forse alimentati anche da quell’Oscar che mai ricevette per i suoi molti personaggi, amati dal pubblico di tutto il mondo, e che “la indusse a pensare di essere vittima di persecuzioni” (Verdone). Probabilmente, il tardivo Oscar alla carriera del 1955 non le tolse l’amaro.

Samuel Green, uno dei pochi amici cui la Divina permetteva di farle visita, ricordava: “Abitava da sola. Non frequentava nessuno. Rimpiangeva di non aver vissuto una vita normale, con una famiglia”. Più o meno lo stesso regret di questi giorni di un’altra grande diva, solitaria: Brigitte Bardot.

Autore
Formiche

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