Quando è nata la mafia? Prima dell’Italia unita. Storia del magistrato che scoprì i “governi nel governo”

  • Postato il 16 aprile 2025
  • Mafie
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Facinorosi, masnadieri, briganti, banditi malfattori, malandrini, comitive armate, scorridori di campagne. E poi camorra e camorristi, setta dei facinorosi e degli intraprendenti, persino associazione de’ bonachi, perchè i componenti indossavano giubbe di velluto. Erano i mafiosi prima dei mafiosi, gli appellativi usati per definire gli appartenenti a Cosa Nostra prima, molto prima, che la più antica tra le organizzazioni criminali si chiamasse così. È una delle tante notizie contenute in Nascita della mafia, documentatissimo saggio storico firmato da Salvatore Mugno e pubblicato da Navarra editore.

Giornalista di Trapani, autore di lavori su Matteo Messina Denaro, Mauro Rostagno e Giangiacomo Ciaccio Montalto, per la stesura del suo ultimo libro Mugno ha condotto lunghe indagini negli archivi di Stato di Napoli, Palermo, Messina e Trapani. Nascita della mafia, infatti, racconta la storia di Pietro Calà Ulloa, il procuratore generale del re inviato dai Borbone in Sicilia. Tra il 1838 e il 1846, il magistrato lavora a Trapani e a Messina e si accorge praticamente subito che qualcosa non funziona. “Non vi è un impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi“, scrive in una lettera al ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Nicola Parisio. In pratica Ulloa si accorge che corruzione diffusa nel Regno delle due Sicilie ha provocato la nascita di un fenomeno anomalo, all’epoca ancora sconosciuto, ma già dilagante. “Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente“, scrive il procuratore generale il 3 agosto del 1838. L’Italia unita è un’idea ancora molto lontana dall’essere realizzata, ma già nelle viscere del Paese si agita un virus sconosciuto. Un fenomeno ancora senza nome, che il procuratore del re non sa come definire, quando tenta di farne un resoconto accurato. “Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti, escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti…”, spiega Ulloa, che è praticamente il primo magistrato antimafia della storia. Ma a sua insaputa: il procuratore generale, infatti, non usa mai i termini mafia e mafiosi, che diventeranno di uso comune solo alla fine dell’800.

Nel 1838 è ancora presto. La mafia non si chiama ancora così, ma ha già caratteristische molto simili alla sua versione moderna: una forza basata sull’omertà e sulla violenza, ma anche su certi legami inconfessabili col potere ufficiale, quello politico. “I soprusi, le prepotenze, la licenza de’ Signori, se n’ha e de’ possidenti; la timidezza e la non curanza de’ Giudici egli è cosa da non credersi. La notizia del mio arrivo e de’ miei primi atti ha diffuso un certo salutare timore se debbo giudicarne all’affluenza di coloro che da tutti i luoghi della Valle accorrono per chiedere giustizia per fatti di non recente data, e sin ora rimasti impuniti“, è un altro passaggio delle lettere di Ulloa, arrivato in una terra dove la popolazione non era abituata a essere tutelata dalle istituzioni.

Nel libro di Mugno sono raccolte decine di documenti rimasti inediti per quasi due secoli. Atti giudiziari che raccontano vicende giuridiche dimenticate, ma evocative. Come quella di don Melchiorre Tedeschi, temuto boss di Castelvetrano, una sorta di antenato di Matteo Messina Denaro, tra i principali obiettivi dell’azione repressiva di Ulloa. Dopo sette anni trascorsi alla Gran Corte Criminale di Trapani, il procuratore generale andò a lavorare a Messina. Quindi tornò a Napoli, dove fu tra gli esperti che parteciparono alla stesura della Costituzione, approvata da Francesco II nel 1859, solo pochi mesi prima dello sbarco dei Mille in Sicilia. Dopo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi, Ulloa rimase fedele ai Borbone e fu nominato presidente del consiglio. Con la caduta del regno, guidò il governo anche in esilio, a Roma. Nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia, rientrò a Napoli, dove morì nove anni dopo. Gli ultimi anni di vita li dedicò alla stesura di testi storici. Non risulta essersi più interessato ai “piccoli Governi nel Governo” che aveva scoperto in Sicilia. E che stavano cominciando a infiltrare anche il nuovo Stato guidato dai Savoia.

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Il Fatto Quotidiano

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