Per vivere bisogna abitare il rischio

  • Postato il 8 novembre 2025
  • Di Il Foglio
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Per vivere bisogna abitare il rischio

Capita, a volte, che un testo che abbiamo da sempre sotto gli occhi, o che ci risuona da tempo nelle orecchie, improvvisamente assuma una forma e una rilevanza che prima, per qualche motivo, ci era stato impossibile cogliere.  Qualche giorno fa, mentre guidavo tra Roma e le Marche, Spotify ha selezionato, dal fondo dei miei gusti, “La prima cosa bella”, cantata da Nicola di Bari. “Ho preso la chitarra, e suono per te. Il tempo di imparare, non l’ho e non so suonare, ma suono per te”. Testo e musica appaiono, inizialmente, come quelli di una canzoncina anni ‘60/’70, ben scritta ma non più illustre o memorabile di milioni di altre. Nella seconda strofa, però, la melodia della canzone rimane la stessa ma il tono e la voce si fanno più gravi, struggenti e allo stesso tempo carichi di una gioia inesprimibile se non con le lacrime. “La senti questa voce, chi canta è il mio cuore”. L’autore si sta rivolgendo all’oggetto del suo canto, spiegando che tutto ciò che riesce a comunicargli è che prova amore per lei. Ma è nella terza strofa che il cammino si compie, che si raggiunge la vetta. 


Il tono musicale si alza ulteriormente e la voce si fa ancora più carica ed emotiva. Lo sguardo si allarga sul mondo, un mondo che sboccia dinanzi alla voce che ama e che canta. “I prati sono in fiore” e quel mondo luminoso, odoroso e pulsante di vita diviene tutt’uno con la persona amata “profumi anche tu”: il culmine di una compenetrazione totale tra individuo e mondo che è insostenibile emotivamente per chi la vive. La voce che canta non regge più alla gioia estatica del momento. E si lascia andare all’abbraccio del mondo, che ormai fa tutt’uno con l’oggetto del suo amore, nell’unico modo che gli sembra possibile in quel momento di insuperabile felicità: “Ho voglia di morire, non posso più cantare, non chiedo di più”.
Al culmine della gioia “ho voglia di morire”. E basta fermarci per un attimo a pensare alle nostre esperienze, per sapere quanto questa percezione sia vera. La voglia di morire quando si è in un momento di perfetta felicità coglie quell’estasi plenaria, il naufragare dolce nel mare, la spinta ad annullarsi nel tutto che non ha a che fare con una mera tensione nichilista ma, paradossalmente, con la più profonda volontà di vivere, con la sensazione di attingere il cuore dell’esistenza stessa. 


Qui si potrebbe facilmente scomodare il dottor Freud e la sua pulsione di morte e i suoi infiniti addentellati. Ma non credo sia utile né tanto meno interessante. Piuttosto, viene da pensare che all’apice della gioia può fare la sua comparsa una volontà di cancellare la vita stessa, tanto è intollerabile la gioia pura, forse come la (non) visione di Dio che sta alla fine del Paradiso. Oppure, si potrebbe semplicemente dire che i momenti culminanti, illuminati, della nostra vita hanno sempre a che fare con quello che Federico Garcia Lorca, osservando l’amato torero Ignacio Sánchez Mejias, definiva il suo “appetito di morte”. E che questo appetito non sia altro, in fin dei conti, che la spinta che abbiamo verso la realizzazione di noi stessi, della nostra vita, costi quel che costi. Una spinta che è certo dirompente, liminale, trasformativa. Una soglia, che ci fa morire, attraversandola, rispetto a chi eravamo, e ci trasforma in qualcosa di nuovo. 


Nella nostra società dell’ipertutelata, riappropriarci di questa vicinanza tra morte e vita appare quanto mai urgente. Questa vicinanza ci dice che per vivere è necessario abitare il rischio. E questo rischio, in una buona vita, non ha a che fare con la morte che tutto conclude, bensì con la potenza esistenziale che è la vita stessa, e con la sua continua trasformazione che è sempre “morte e resurrezione”. Allora, una vita che di continuo sfiora questa morte, potrebbe essere quella che, con un’espressione dozzinale eppure sempre bella, si definisce una vita ben vissuta. O, meglio ancora, una vita salvata. 

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Autore
Il Foglio

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