“Noi sopravvissuti al Bataclan ci sentiamo come fratelli. La cosa più dura oggi? Sentire l’obbligo di stare bene e godersi la vita perché non siamo morti”

  • Postato il 11 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Catherine Bertrand ha la stessa testa scura di capelli che disegna per il suo personaggio a fumetti. Mentre parla, seduta ai tavolini di un bar dietro place de la Republique, se li tiene stretti di lato. La voce è ferma, gli occhi grandi e tondi proprio come se li tratteggia sulla carta. Prima del 2015 fare l’illustratrice era un hobby, ma dalla notte in cui è sopravvissuta alla carneficina del Bataclan tante cose sono cambiate. Ad esempio, per molto tempo non ha più potuto leggere: «Non riuscivo a concentrarmi, era impossibile ». Così ha iniziato a disegnare per raccontare cosa le succede dentro e si è autopubblicata la graphic novel “Cronache di una sopravvissuta”. Lì i suoi traumi li ha immaginati come delle palle pesanti che si trascina. Forse così riesce a farsi capire anche da chi le continua a dire “che 10 anni sono tanti ed è ora di andare avanti”. Lei ci sta provando : è vice presidente dell’Associazione vittime di terrorismo (Afvt) ed è stata sua l’idea di organizzare una corsa e una marcia, prima delle celebrazioni ufficiali, per andare a rendere omaggio ai luoghi degli attacchi. Per portare la vita, dove la violenza ha cercato di distruggere tutto. Una delle prime volte che è riuscita a tornare in pubblico è stato per vedere una partita delle Paralimpiadi: “Lo sport mi ha rasserenata”. Allora ha pensato che avrebbe desiderato portare in piazza tutti i francesi, “non per piangere”, ma per esserci come una comunità. E’ nata così l’idea di una marcia, organizzata dal basso: con lei le famiglie delle vittime – tra cui Luciana Milani, mamma della vittima italiana Valeria Solesin – ma anche tante persone che da quel lutto sono state sfiorate. “Tutti quella sera ricordano dov’erano o hanno avuto paura che un loro caro fosse morto. Anche loro hanno sofferto”. Bertrand ogni tanto si ferma e accenna un sorriso. Poi si rimette a parlare del suo nuovo mondo: dei flashback improvvisi che la riportano a quella notte, della “sindrome dei sopravvissuti” che si sentono obbligati a stare bene, delle altre vittime diventate come fratelli e sorelle. Quando li ha visti dal palco, nella piazza dell’Hotel de Ville, le è tremata la voce: “Ho sentito solo dell’amore, ne abbiamo bisogno”, ha detto al microfono. Perché dopo dieci anni, le reti di supporto servono come il primo giorno.

Com’è andata la marcia?
Siamo davvero felici. Finalmente una vera mobilitazione per il 13 novembre.

Perché ha cercato un coinvolgimento collettivo?
Quella sera non hanno attaccato solo me o le altre vittime. E’ stata attaccata la Francia per i valori di libertà, uguaglianza, fratellanza. Hanno colpito lo sport, la cultura, un modo di vivere. E dopo dieci anni, io credo fosse il momento di invitare non solo le vittime, ma tutti i francesi. E non per piangere, ma per stare insieme.

Riguarda molte più persone di quello che pensiamo?

Tutti i francesi sanno esattamente cosa stavano facendo quella sera. C’è un trauma nazionale: le vittime nella maggior parte dei casi sono state prese in carico, anche se resta molta sofferenza. Ma tutti i francesi che quella sera hanno provato l’angoscia che uno dei loro cari fosse morto o erano lì vicino e hanno sentito gli attacchi, anche loro sono legittimati a sentirsi vittime. Il mio messaggio era a chi ha sofferto in un modo diverso : andiamo avanti, ma facciamolo insieme.

Perché proprio una corsa?
Ho adorato le Olimpiadi di Parigi l’anno scorso. All’inizio le temevo molto perché soffro di stress post-traumatico e sono diventata agorafobica. Pensavo che sarei stata chiusa dentro casa. Invece, quando ho visto la cerimonia d’apertura in televisione, sono impazzita di gioia. Mi sono sentita rasserenata e mi sono resa conto che i valori sportivi sono quelli che cerca la vittima di un attentato.

Ovvero?
La benevolenza, il rispetto, la dignità. Quando si ascoltano gli atleti di alto livello, molti di loro hanno un trauma del passato che hanno superato grazie allo sport. Per noi vittime di attentato è un’ispirazione. E poi lo sport fa bene al fisico, ma anche alla salute mentale.

A lei ha fatto bene?
Dopo aver visto l’apertura dei Giochi, ho addirittura deciso di assistere a una partita di goalball alle Paralimpiadi. Da sola. Avevo paura, ma ho trovato persone gentili che si sono prese cura di me. Mi è sembrato di trovare una famiglia. Le vittime di attentato hanno bisogno di benevolenza. Ma è complicato trovarla.

In che senso?
Dieci anni dopo il 13 novembre, i nostri cari, le famiglie, gli amici, i colleghi pensano che il tempo della ricostruzione è troppo lungo. Il tempo per loro e per noi è diverso. E ci sentiamo giudicati. Ti dicono che in dieci anni sono successe molte cose e bisogna andare avanti. Per loro scatta la prescrizione. Sono cose spiacevoli che si possono sentire nei nostri cerchi. Ma non nell’ambiente dello sport. Lì non si giudica, ma si accettano le differenze.

Dieci anni sono pochi?
Non è un tempo lungo. Per me sono meno. Per una vittima di attentato la nozione di tempo è cambiata. E’ molto lontano e molto vicino. Lo stress post traumatico ci impedisce di ancorarci al presente.

Ricordare non è anche un peso?
Quello che abbiamo vissuto è enorme. Non potremo mai dimenticarlo. E non si deve. Però c’è il processo importante, a un certo punto, è quello di cercare di accettare la situazione. Perché se si lotta contro questo, alla fine ci si ammala. La cosa migliore per me è di accettare che il terrorismo ci ha colpiti. E ora spetta a noi prendere parte a quello che viene dopo. Che cosa vogliamo per i nostri figli? Per noi? Dobbiamo prendere delle lezioni da tutto questo. E’ un problema di società che non riguarda solo la Francia. Bisogna parlarne. Terrorismo vuol dire seminare la paura, se è tabù allora i terroristi hanno vinto. Io non sono più nella fase della paura, ma della resistenza. E voglio sensibilizzare le persone sui danni del terrorismo.

Come avete iniziato a disegnare quello che avete vissuto?
Prima disegnavo solo per hobby. Poi dopo l’attentato del Bataclan, visto che la mia ferita era invisibile, quindi psicologica da stress traumatico, avevo bisogno di concretizzarla, materializzarla. E l’ho fatto con i disegni che mi sono serviti per far uscire le mie sofferenze interne : così ho usato delle palle pesanti per rappresentare i miei sintomi da stress traumatico. E questa sintesi ha aiutato me e anche altre vittime. Anche a spiegare i loro sintomi alle loro famiglie.

Non capivano?
In Francia 10 anni fa lo stress post-traumatico era solo per i veterani. C’era una mancanza di sensibilizzazione alle ferite psicologiche. Questo libro risponde a un bisogno dell’epoca di diffusione di un concetto. Ed è fatto nel modo più semplice e accessibile possibile. Senza contare che ogni volta mi tremava la mano e non riuscivo a disegnare bene. Dovevo sempre ripassarci sopra e semplificare. Io dopo l’attentato non riuscivo più a leggere : avevo problemi di memoria e concentrazione, non capivo quello che leggevo. Per questo mi sono appoggiata sui disegni : sono più facili da capire. Questo libro lo volevo universale perché parlasse a tutti. Per spiegare cosa è successo quella notte là.

Cosa le è successo la notte del 13 novembre al Bataclan?
Non voglio tanto lavorare su quello, ma sulla mia ricostruzione. Nel libro ci sono al massimo 10 pagine sull’attacco. Perché il trauma è arrivato dopo. Lì spiego il percorso di combattente di una vittima d’attentato in Francia. E lo faccio con l’umore perché permette di mettere della distanza e, al tempo stesso, far passare dei messaggi forti.

Si può trovare un modo per sorridere?
Non è che ho riso di tutto. Non mi sentivo legittimata a farlo. Ho scelto l’autoderisione. Rido della mia nuova me e di tutti i sintomi che ho. Perché mi trovo in situazioni incredibili per la strada. O con sbalzi d’umore molto aggressivi. Volevo ridere di questo e rendere il terrorismo accessibile. Con l’umore è possibile.

Oltre a quello che avete vissuto, avete anche il peso di comunicarlo?
Voi non potete mettervi nei nostri panni. Abbiamo una responsabilità di testimoniare, di raccontare questa sofferenza. Perché è talmente eccezionale che nessuno può capirla. Siamo dei custodi della memoria e abbiamo un dovere di trasmissione per le nuove generazioni. A me fa bene andare in giro a parlare come sopravvissuta.

Ha un legame con le altre vittime del Bataclan?
Io quella sera ero con il mio compagno di allora, poi ci siamo lasciati. Non importa, è la vita. Però ho trovato molte persone che erano là grazie alle associazioni. E loro, che non conoscevo, non sono diventati degli amici, ma dei fratelli e delle sorelle. Tra noi non ci giudichiamo, non abbiamo bisogno di giustificarci. Abbiamo un legame molto forte. Questa è stata la nostra forza nella disgrazia. Siamo abbastanza per sostenerci gli uni e gli altri. Per me sono una nuova famiglia.

Continuate a disegnare?
Ho fatto un libro sul processo che si chiama « Justesse » e me lo sono autopubblicato. Quando ho voglia poi, faccio delle illustrazioni e le pubblico sui social network. Mi fa bene.

Com’è stato andare al processo?
Per me è arrivato presto. Non mi sentivo ancora pronta. Ma mi sono dovuta immergere nonostante tutto. E le associazioni di vittime mi hanno spiegato che non dovevamo attenderci niente. Per non essere delusi. Io qualche risposta l’ho avuta. Sono stata contenta di esserci stata. Anche se è stato molto faticoso e ci sono state molte provocazioni degli imputati.

Ha avuto comunque un senso?
Per me è stata una fase essenziale nella ricostruzione. Perché lo Stato di diritto francese ha preso in carico il caso e quindi ci si sente sostenuti. Meno soli. E questo calma. Non ho più molta rabbia su questo : so che la giustizia se ne è occupata e gli accusati sono stati giudicati e condannati a seconda delle responsabilità. E’ molto importante.

Qual è la cosa più difficile dopo 10 anni?
Cercare di godersi la vita dopo che altri sono morti. E’ la sindrome dei sopravvissuti : io sono in lutto e loro sono morti. Non è giusto, non c’è logica, è così. Abbiamo questa responsabilità di doverne approfittare per loro e per noi e ci mette pressione. E chi abbiamo intorno fa pressione perché stiamo meglio. Come se fossimo obbligati a stare meglio. Ma non è semplice vivere dopo quella serata. Io posso avere dei flashback che mi riportano direttamente al Bataclan senza che lo voglia. Succede in un qualsiasi giorno della settimana o in un qualsiasi momento della giornata. Mi torna in testa. Il trauma è duro sul lungo periodo.

Cosa chiede alla politica e alla società civile?
Che ci sia più attenzione alla presa in carico delle vittime. Ora vanno bene le commorazioni, ma non dimentichiamole dopo. Ci sono molte cose ancora da fare, anche se non siamo i più sfortunati in Europa. Ma non è mai abbastanza quando parliamo di vittime di attentato: è un trauma a vita, ci sono famiglie distrutte, genitori che hanno perso i loro figli.

E cosa si può fare?
Serve un sostegno psicologico che continui sui 10, 20 o 30 anni. Perché le vittime saranno tali anche tra 30 anni. Abbiamo un fondo di garanzia per chi è stato colpito in un attentato. Ma riconoscere, ad esempio, un danno psichico è molto più difficile. Siamo felici che esista questo programma, ma è una doppia pena il processo amministrativo. Può essere lungo e, anche se assistiti da avvocati, ci sentiamo spesso giudicati. Sembra che ci dobbiamo sempre giustificare della nostra sofferenza.

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Il Fatto Quotidiano

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