Molotov e gas, il “piano” dei fratelli Ramponi asserragliati: cosa è successo a Castel D’Azzano
- Postato il 14 ottobre 2025
- Cronaca
- Di Il Fatto Quotidiano
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Le fiamme e le macerie. I giubbotti antiproiettili anneriti in mezzo al prato e le bottiglie molotov esposte sul tetto da settimane. Maria Luisa, Dino e Franco Ramponi vivevano in un casolare fatiscente a Castel D’Azzano, nel Veronese, senza l’allaccio della corrente elettrica, e con una sentenza di sfratto che pendeva sulle loro teste da almeno un anno. I tre sostenevano di essere vittime di un inganno: la firma del prestito non è la nostra, è stata contraffatta. Eppure sia i campi che la casa erano sotto ipoteca. E col tempo l’iter aveva portato alla decisione di esproprio. Da lì, un primo tentativo di sfratto e diversi avvisi. Fino all’acme del 14 ottobre, in un intervento mirato proprio a perquisire il casale e a scongiurare gravi incidenti.
Le squadre speciali si dividono: alcuni uomini sul tetto, altri pronti all’ingresso. Poi, qualche minuto dopo alle 3, l’esplosione: la donna, secondo le prime ipotesi, con una molotov fa saltare in aria entrambi i piani, già saturi di gas. Il casolare prende fuoco, tre carabinieri muoiono. Si rende necessario l’intervento dei Vigili del fuoco e di 25 unità tra squadre ordinarie, unità cinofile e nuclei USAR (Urban Search and Rescue) per la messa in sicurezza dell’area. Quando i militari riescono a introdursi nell’alloggio, quasi in ogni stanza viene ritrovata una bombola aperta. Nel camino, altre molotov pronte ad essere utilizzate. E nascosta e ferita a sua volta, c’è la sorella Ramponi stessa. I suoi fratelli sono in cantina: uno ferito, e subito fermato. Uno pronto alla fuga. Dopo ore, anche lui – Franco – viene rintracciato in una campagna di loro proprietà. Non oppone resistenza, e si arrende.
Già a settembre i Ramponi, da sempre agricoltori e allevatori, si erano detti pronti a tutto pur di non lasciare il casale che reputavano ancora di loro proprietà. Nonostante, come ha riferito il procuratore Capo di Verona Raffaele Tito, fosse già pronto un alloggio alternativo. E nonostante la casa fosse di fatto inabitabile, i campi fossero sotto ipoteca, e loro non potessero più permettersi né di mantenerla, né di ristrutturarla. Chi li conosce racconta che lavoravano solo di notte, non avevano amici, e sopravvivevano grazie al latte delle poche mucche in loro possesso. Era difficile vederli in giro. Nel paese si sapeva tutto: i debiti, le minacce, le bottiglie molotov artigianali incastrate tra le tegole, pronte per essere utilizzate. Ma soprattutto esposte come monito: non ce ne andiamo, piuttosto ci facciamo saltare in aria.
Così nella notte la cascina è stata circondata: carabinieri dei Reparti speciali e agenti dell’Unità Operative di Primo Intervento, specializzati in azione antiterrorismo, pronti a intervenire. I tre fratelli si sono barricati in casa. Alcuni agenti sono saliti sul tetto per calarsi nello stabile dall’alto, altri si sono diretti alla porta d’ingresso per procedere all’irruzione. Di fronte alla porta d’ingresso, davanti a tutti, ci sono Marco Piffari, luogotenente carica speciale, Davide Bernardello, carabiniere scelto, e Valerio Daprà, brigadiere capo qualifica speciale. L’odore di gas è evidente, il sottotetto è già saturo. I fratelli sono asserragliati. Nemmeno la rottura preventiva delle finestre basta a scongiurare lo scoppio. All’apertura del portone, le fiamme investono i carabinieri. Il boato si sente a distanza di metri, chi sta ancora salendo le scale finisce sotto i calcinacci.
L’intensità della deflagrazione colpisce tutti gli agenti presenti, ustionati e colpiti dalla spinta esplosiva. Nell’onda d’urto alcuni agenti finiscono sotto le macerie, altri, più indietro, vengono raggiunti dalle fiamme. Intanto, la casa continua a bruciare e l’intera struttura crolla. Chi era presente, ora parla di una situazione da guerra, di una scena apocalittica: “Ci siamo buttati a cercare chi era sotto le macerie, c’era gente che non si rendeva conto di essere ferita, che stava sanguinando. Toglievamo le macerie con le mani, cercavamo i colleghi”, racconta un militare. Una scena fuori controllo, nonostante le previsioni e i precedenti, conferma il comandante provinciale dei carabinieri di Verona Claudio Papagno, che ha diretto il servizio: “Ci siamo trovati davanti a una follia“. E ora la procura, che accusa i tre di omicidio volontario, ipotizza anche di contestare la strage.
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