Luciano Berio, il futuro che suona ancora: una musica “impura”, contaminata, viva. I suoi cent’anni un’occasione per riascoltarlo (davvero)

  • Postato il 10 agosto 2025
  • Musica
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 2 Visualizzazioni

“Non si può parlare di musica senza parlare del mondo”. A dirlo era Luciano Berio. E a farlo, con la stessa naturalezza con cui un bambino passa dal disegno al racconto, è stata tutta la sua opera. A cento anni dalla nascita, il compositore italiano torna protagonista delle stagioni sinfoniche con le sue composizioni: un omaggio diffuso in Italia e all’estero, finalmente degno di uno degli artisti più visionari del Novecento. Eppure Berio è ancora, per molti, un nome da dizionario. Uno di quelli associati alla “musica difficile”, alle avanguardie musicali del Novecento, ai “rumori”. Ma dietro le etichette c’è molto di più: c’è un’idea di musica come atto politico, antropologico, linguistico. Un modo per dare forma al caos senza mai smettere di ascoltarlo.

La ricerca musicale di Berio si è sempre distinta per l’equilibrio tra una profonda conoscenza della tradizione e una costante apertura alla sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi. Nelle sue varie fasi creative ha sempre cercato di mettere in relazione la musica con vari campi del sapere umanistico: la poesia, il teatro, la linguistica, l’antropologia, l’architettura. Ha esplorato il grande patrimonio della musica occidentale nelle sue rivisitazioni di Claudio Monteverdi (Il Combattimento di Tancredi e Clorinda), Johann Sebastian Bach (Contrapunctus XIX), Luigi Boccherini (Ritirata notturna di Madrid), Wolfgang Amadeus Mozart (Vor, während, nach Zaide), Franz Schubert (Rendering), Giacomo Puccini (il Finale di Turandot) e altri ancora. L’ideale di far convivere le diverse dimensioni e tradizioni delle nostre civiltà si manifesta inoltre in lavori quali Sinfonia (1968), Coro (1975-76) e Ofanìm (1988-92): quest’ultimo, in particolare, prepara il terreno ai suoi due ultimi lavori teatrali. Ed è proprio il teatro musicale a costituire un nodo fondamentale della ricerca e della poetica di Berio. Dopo i primi lavori scenici degli anni Cinquanta e Sessanta (Allez-Hop su libretto di Italo Calvino e Passaggio su testo di Edoardo Sanguineti), egli approda nel decennio successivo alla sua prima “azione musicale” in più atti su testi propri con Opera (1969-70/1977). Seguono La vera storia (1980) e Un re in ascolto (1983) su testo ancora di Calvino, Outis (1996) su libretto di Dario Del Corno e Cronaca del Luogo (1999) su testo di Talia Pecker Berio. Menzione a sé merita A-ronne (1974-75), documentario radiofonico per cinque attori (elaborato nel 1975 per 8 voci) su testo di Sanguineti, punto di approdo delle sperimentazioni radiofoniche condotte da Berio fin dagli anni Cinquanta.

Ora, Berio non ha mai voluto essere rivoluzionario per forza. È stato piuttosto un artigiano del suono e delle sue possibilità. E, soprattutto, un artista consapevole che la musica, come la memoria, vive di frammenti, richiami, riscritture. Basti pensare a Sinfonia (1968), forse il suo lavoro più celebre, che è insieme un omaggio, una critica e una reinvenzione della cultura musicale occidentale. Cinque movimenti per otto voci amplificate (lo storico ensemble Swingle Singers) e grande orchestra, in cui si incontrano Gustav Mahler, Samuel Beckett, James Joyce, Claude Lévi-Strauss, il ‘68 e la seconda scuola di Vienna. Le voci infatti (due soprani, due contralti, due tenori e due bassi) recitano, sussurrano, urlano, parlano e cantano frammenti di testo estrapolati da Le cru et le cuit di Lévi-Strauss, L’innominabile di Beckett o indicazioni di Mahler presenti nelle sue partiture. Come disse Berio stesso, il titolo del brano, Sinfonia, allude alla forma classica ma è da intendersi piuttosto come un “insieme di suoni” di otto voci e strumenti oppure, in senso più generale, come il “suonare insieme” di cose, situazioni e significati diversi. Un’opera-mosaico in definitiva, dove i frammenti non si sommano mai in modo lineare, ma si illuminano a vicenda come in un prisma rotante. Ed ecco l’intuizione profonda di Berio: non cancellare la tradizione, ma farla esplodere dall’interno. Non sovvertire, ma moltiplicare. Ogni suono, ogni parola, ogni gesto musicale è insieme sé stesso e altro. L’identità, anche musicale, è sempre plurale.

Uno degli aspetti più innovativi della ricerca beriana è stato senza dubbio la centralità della voce. L’interesse per le diverse espressioni della musicalità umana lo hanno condotto a una rivisitazione costante di diversi repertori di tradizione orale, come in Folk songs (1964), Cries of London (1974-76) o Voci (1984). In particolare, con la prima moglie e musa Cathy Berberian, americana, mezzosoprano, Berio ha esplorato come nessun altro le potenzialità espressive, timbriche e linguistiche del corpo umano. In Sequenza III (1965) su testo di Markus Kutter, ad esempio, la voce femminile diventa uno strumento di teatro interiore: urla, bisbiglia, ride, sospira, frammenta frasi, ne inventa altre. Non è canto nel senso tradizionale, è voce nel suo stato puro: precario, pulsante, poetico. In questa composizione per sola voce, Berio cerca di assimilare musicalmente molti tratti della vocalità quotidiana, anche quelli triviali, senza rinunciare per questo ad alcuni aspetti intermedi ed al canto vero e proprio. “Per me la voce è sempre stata un laboratorio di emozioni e di forme”, diceva. Ed è questa attenzione per la dimensione fisica e comunicativa del suono che lo rende ancora oggi incredibilmente attuale, in un’epoca in cui le intelligenze artificiali ricreano voci sintetiche e l’autenticità sembra un effetto speciale.

Tra i primi in Italia a sperimentare la musica elettronica, Berio fondò nel 1955, insieme a Bruno Maderna, lo Studio di Fonologia musicale Rai di Milano, il primo laboratorio dedicato ad esperimenti di musica concreta ed elettronica, sulla scia di altri centri europei, in particolare il Groupe de Recherches Musicales di Parigi e lo Studio für elektronische Musik des WDR di Colonia. Lo Studio di Milano divenne così il terzo polo europeo di esperimenti di musica contemporanea con apparecchiature elettroniche. Ma a differenza di altri pionieri più “freddi”, Berio cercava nella tecnologia non un’alternativa all’umano, bensì un’estensione: “La macchina non deve sostituire, ma dialogare”. Così nascono opere come Thema (Omaggio a Joyce) (1958), una elaborazione elettroacustica della voce di Cathy Berberian su nastro magnetico. La voce del mezzosoprano, che legge un brano dell’Ulysses, viene smontata, manipolata e ricomposta elettronicamente in un flusso sonoro che è al tempo stesso parola, canto, rumore e pensiero. A partire dalla lettura del testo di Joyce, Berio analizza e seleziona determinati fonemi in seguito sviluppati in maniera elettroacustica, mettendo in evidenza le peculiarità sonore, musicali e soprattutto onomatopeiche del lessico joyciano attraverso parziale lettura dell’introduzione al capitolo XI dell’Ulysses intitolato Sirens, associato dallo stesso Joyce all’arte della musica. Sotto questo profilo, quando oggi le tecnologie digitali sono pervasivamente intrecciate alla produzione musicale, Berio appare non solo come un pioniere, ma come uno che aveva già capito tutto: che il suono, come il linguaggio, è sempre un campo di tensione tra natura e artificio.

Una delle grandi virtù di Berio era l’ironia. Non quella superficiale, ma quella profonda, che nasce dalla consapevolezza della complessità del mondo. In un secolo, il Novecento, attraversato da guerre, ideologie e utopie tradite, Berio ha scelto la leggerezza: non come fuga, ma come forma di resistenza. In Folk Songs per mezzosoprano e orchestra, ad esempio, raccoglie canti popolari provenienti dalla tradizione orale di differenti paesi (Stati Uniti, Armenia, Italia, Francia, Azerbaijan) e li rielabora con grande libertà, senza mai cadere nel pittoresco. È un atto d’amore per la cultura orale, ma anche una riflessione sul confine (sempre poroso) tra popolare e colto, tra canto e scrittura. Questa apertura è stata una costante del suo pensiero musicale. Non a caso Berio ha scritto anche per bambini (Opus Number Zoo, 1951), ha collaborato con poeti, registi, scienziati, ha diretto importanti istituzioni (tra cui l’Accademia di Santa Cecilia), ha riflettuto sui rapporti tra musica e semiotica, tra composizione e politica. La sua idea di musica era pertanto “impura”, contaminata, viva.

Nel panorama musicale contemporaneo, la sua eredità è ovunque: nei compositori che mescolano generi e materiali, nei sound artist che lavorano sulla voce, negli ensemble che portano l’avanguardia fuori dai templi della musica colta. Eppure, la sua figura resta ancora parzialmente di nicchia. Forse perché ha sempre rifiutato le semplificazioni o perché era troppo libero per essere etichettato. E allora questo centenario, celebrato da orchestre, festival e istituzioni in Italia e all’estero, è l’occasione per riascoltarlo davvero. Non con l’atteggiamento del dovere culturale, ma con la curiosità di chi cerca un’altra idea di futuro. Perché, come scrisse lui stesso, “la musica non è mai dove ci aspettiamo che sia. E non è mai finita”. Berio ci ha insegnato ad ascoltare ciò che ancora non sappiamo dire. E in un mondo che spesso urla senza ascoltare, questo è forse il gesto più rivoluzionario che ci abbia lasciato.

***

Nella foto in alto | Due immagini di Berio. Per quella di destra i crediti sono Nicola (CeDoMus)/Wikipedia

L'articolo Luciano Berio, il futuro che suona ancora: una musica “impura”, contaminata, viva. I suoi cent’anni un’occasione per riascoltarlo (davvero) proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti