L’Isis non è scomparso perché il fondamentalismo è un’idea e le cause che lo hanno generato non sono state eliminate | l’analisi
- Postato il 30 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Bisogna andare nel campo di al Hol, nel nord est della Siria, per trovare i resti dell’Isis, lo stato Islamico di Siria e Iraq. Oltre 60 mila persone, per la maggior parte famiglie e bambini di combattenti che avevano aderito all’ideologia di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo di un’emirato che controllava nel 2017 un territorio grande come la Gran Bretagna, sono oggi prigionieri in un carcere a cielo aperto. Ma l’Isis non è sparito perché è solo l’ultima forma conosciuta di un malessere che ha colpito parti delle popolazioni arabe di Siria e Iraq, coinvolte nei recenti conflitti, e giovani europei marginalizzati nelle periferie del vecchio continente.
Quanto questo sia vero lo aveva anticipato Oliver Roy, islamologo francese, in diverse analisi riguardanti gli attentatori francesi che avevano colpito il Bataclan e Charlie Hebdo, la rivista satirica. Nei suoi libri, Roy sosteneva che molti jihadisti europei non fossero il prodotto dell’immigrazione islamica tradizionale, ma giovani occidentali radicalizzati che trovano nell’Isis una forma di ribellione e identità.
In parallelo, nel mondo arabo, in particolare Iraq e Siria, la chiamata alle armi fatta dallo Stato Islamico aveva attratto molti giovani sunniti che, in Iraq, hanno vissuto la discriminazione e le persecuzioni perpetrate dagli sciiti – un tempo perseguitati dal regime di Saddam Hussein -, che, preso il potere, avevano fatto pagare un prezzo alto a quella parte di popolazione che aveva sostenuto il vecchio regime. Lo dimostrano le espropriazioni fatte ai sunniti iracheni ad opera dei curdi e delle milizie di “Hashida al shaabi” – forze popolari – chiamate a raccolta a combattere l’isis e che si macchiarono di crimini mai raccontati. O in Siria, dove le tensioni confessionali e il fatto che fossero stati i civili sunniti ad essere le vittime principali della repressione del regime di Assad, aveva riempito i ranghi del califfato.
I problemi di allora, quelli che spinsero Abu Bakr al Baghdadi a parlare dal minbar, il pulpito, della moschea al Nouri a Mosul, rimangono parzialmente irrisolti. Specialmente in Iraq, dove le tribù – quelle che fornirono i combattenti migliori allo Stato Islamico – sono ancora ai margini della società. Mentre in Siria, Ahmad al Sharaa, ex qaedista, fondatore di al Nusra, emiro a sua volta, oggi presidente del paese, dopo aver dato la spallata finale al regime degli Assad, nel dicembre 2024, affronta un percorso pragmatico dove la dialettica fondamentalista, almeno pubblicamente, è abbandonata in favore di un discorso nazionale e moderno. Ma paga gli strascichi di ex alleati scomodi che oggi chiedono una fetta di potere. Per ripulirisi, in previsione di uno spostamento geopolitico della Siria filo-americana, ha fatto arrestate molti jihadisti stranieri nel paese. Come Abu Dujana, radicalista uzbeko in Siria, star dei social. O i jihadisti palestinesi Khaled Khaled e Ali Yasser dell’organizzazione Jihad Islamica Palestinese.
L’esempio di al Sharaa, ci dice quanto l’islam politico sia un fenomeno complesso. I titoli di giornale gridavano a una Siria possibile Afghanistan dopo la sconfitta di Bashar al Assad l’8 novembre. Tutt’altro è il risultato.
Il fondamentalismo è un’idea, e le idee non muoiono fino a quando le circostanze che le hanno create non sono risolte. L’Isis è stato un fenomeno di una potenza mediatica epocale, capace di mettere in crisi e ridiscutere la convivenza con le comunità musulmane nei paesi Europei. Il dato certo è che il fondamentalismo islamico ha fatto più morti fra i musulmani che fra gli occidentali. Secondo dati dell’Onu le vittime musulmane del terrorismo islamico contano per il 95% del totale. Così non è ancora percepito dall’opinione pubblica.
A Beirut, nel 2014, un attentatore, si fece saltare nel mercato di Burj Barajee. La città si fermò. Gli abitanti chiesero in tv, rivolgendosi a un pubblico occidentale che non era ovviamente all’ascolto, “perché non raccontate anche dei nostri morti?” cercando di scansare quell’eterna classifica di morti di serie A e B.
Lo Stato Islamico ha fatto comodo a tutti. Per reprimere lo Stato Islamico, la Russia avviò una campagna nel 2015 in Siria che andò a colpire l’opposizione e non lo Stato Islamico, come ci raccontano ormai evidenze acclarate. Gli Stati Uniti si misero a combatterlo sostenendo a terra i curdi per avere la loro fetta di influenza fra Siria e Iraq, in funzione anti russa. E i paesi del Golfo, in quel calderone che era il territorio di quel califfato fra Siria e Iraq, sostennero una milizia radicale a testa.
In pericolo, pronta ad essere distrutta – scrissero – era la civiltà occidentale messa a rischio dagli uomini vestiti in nero che in diretta tv avevano decapitato il giornalista americano James Foley. Ma oggi, visitando i territori che vanno da Damasco a Baghdad, non si riesce a non inciampare in una fossa comune piena di cadaveri di siriani o iracheni, musulmani: vittime dimenticate e mai riconosciute. E proprio questa dimenticanza, come quella dei 60mila rinchiusi a al Hol, fra di loro anche cittadini occidentali che hanno abbracciato lo Stato Islamico come idea di ribellione contro un occidente ipocrita, nell’abbandono e indegenza formano lo stesso terreno di malessere che ha portato alcuni prima di loro a combattere credendo nelle promesse di Al Baghdadi.
A dieci anni dagli attentati che sconvolsero l’Europa, i pericoli maggiori coinvolgono ancora il mondo arabo. Ineguaglianze, malessere sociale e marginalizzazione continuano ad essere le prime cause che, in assenza di discorsi politici nuovi, spingono i giovani nelle braccia del fondamentalismo. Ma anche il completo annientamento di una popolazione, come quella in Palestina, a Gaza, non può che trasformarsi nella solita semplificazione: ci uccidono perché arabi, i nostri morti valgono di meno perché musulmani. E una parte del mondo si sente sempre sotto scacco.
La soluzione, in parole semplici, l’aveva espressa quasi 30 anni fa Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite. “Il fondamentalismo non si sconfigge con la forza delle armi – aveva detto parlando ad una platea a Teheran, ma con la forza delle idee. Bisogna offrire ai giovani una visione del mondo in cui si sentano utili, rispettati e parte di qualcosa di più grande di sé — senza bisogno di odiare nessuno per sentirsi vivi.”
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