La scuola non può educare da sola. E sull’educazione sessuale lo stiamo scoprendo tardi

  • Postato il 27 novembre 2025
  • Di Panorama
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C’è sempre una buona ragione per chiedere alla scuola di occuparsi di qualcosa di nuovo. Oggi è l’educazione sessuale, ieri quella civica, domani sarà quella emotiva o digitale. Ogni tempo ha i suoi bisogni, e la scuola — istituzione pubblica per eccellenza, luogo di formazione e di cittadinanza — non può sottrarsi. Ciononostante, non tutto può passare di lì. Non si può immaginare la scuola come una cassetta degli attrezzi per la vita, pronta a fornire soluzioni pratiche a ogni emergenza sociale. Perché la scuola non è questo — o almeno, non solo questo. È il luogo dove si costruisce il pensiero, non dove si dispensano risposte immediate. L’educazione sessuale e affettiva, ad esempio, può certamente avere un lato letterario: attraverso la lettura, la riflessione, i grandi autori — da Dante a Flaubert, da Svevo a Moravia, da Elsa Morante all’Amico ritrovato di Fred Uhlman— la letteratura può educare alla complessità del sentire, al desiderio, alla relazione, ma leggere grandi libri e incontrare grandi maestri non può più bastare: non tutti gli studenti sono pronti a leggere e apprezzare Madame Bovary o il quinto canto dell’Inferno, e non tutti frequentano percorsi umanistici. La scuola è per tutti, anche per chi si forma nei professionali, per chi apprende con linguaggi pratici e diretti. È un discorso delicato e proprio per questo urgente. Peraltro, è facilmente strumentalizzabile da chi sarà pronto a gridare che “anche nelle scuole professionali si fa letteratura”, che “non ci sono studenti di serie A e studenti di serie B”, perdendo così di vista ancora una volta il cuore della questione e arrivando a conclusioni affrettate, riducendo a polemica un discorso che intende essere costruttivo. Occorre un linguaggio nuovo, un approccio concreto, capace di adattarsi alle diverse età, alle diverse scuole, alle diverse persone? Ottimo, va cercato studiando il modello e proponendo possibilità altre, perché non basta un ritaglio di tempo per un rattoppo a un sistema in crisi. Eppure, la risposta istituzionale è spesso affidata — o meglio, delegata — alla buona volontà del singolo docente o a un formatore esterno che, per quanto preparato, capace e interessante possa essere, propone inevitabilmente quasi sempre un intervento standard, non calibrato sulla singola classe. E per molti studenti quell’ora, quel modulo, viene vissuta come un alleggerimento, un’ora in meno di lezione, non come un momento formativo. 

Don Milani, ancora una volta, può tornare utile: in un tempo in cui la scuola è chiamata a “fare tutto”, sessant’anni fa scriveva parole definitive: “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.” E ancora: “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” (Lettera a una professoressa, 1967). In queste frasi c’è la radice di ogni discorso educativo: la scuola non è chiamata a insegnare qualunque cosa, ma a non perdere nessuno; non si impegna a livellare, ma a includere; non riesce a rispondere a ogni emergenza sociale, ma può dare a ciascuno le condizioni per capire il mondo, affrontarlo e, se possibile, cambiarlo. Per Don Milani – potremmo dire sintetizzando il suo pensiero – la scuola è “un ospedale che cura i malati” e quindi deve occuparsi di chi resta indietro, non di chi è già salvo, o quantomeno non primariamente di chi è già salvo, o ha abbastanza strumenti – in sé e intorno a sé – per riuscirci. Ecco che questo vale per le competenze linguistiche, ma anche per un’educazione allo stare insieme, alla cittadinanza, alla relazione. È da qui che si deve ripartire: dall’idea che la scuola non può tutto, ma può — e deve — essere il luogo dove si ricostruisce l’uguaglianza, attraverso l’esempio, la buona pratica quotidiana, la cultura umanistica, e – ma come? È tutto da capire – la trattazione di argomenti nuovi, complessi, difficilmente valutabili e verificabili, come ciò di cui si sta parlando in questi anni. Serve allora trovare uno spazio — come è stato in ogni tempo — per le esigenze di oggi, ricordando che la scuola non può farcela da sola, perché a incidere sulla formazione non è solo un’ora di educazione sessuale o civica, ma anche e soprattutto l’esempio degli adulti, il linguaggio pubblico, il tono del dibattito. Se i modelli che arrivano dalla politica, dai media o dai social sono aggressivi, confusi, volgari, se l’obiettivo di ogni confronto è soverchiare l’altro, impedire di parlare, umiliare, ecco allora la scuola, con i suoi strumenti limitati, non può raddrizzare da sola ciò che il mondo intero piega ogni giorno. Nel frattempo, la scuola continua a difendere — con fatica — il suo nucleo fondante: i saperi di base linguistici e matematici, le lingue straniere, l’educazione estetica e al gusto, il pensiero critico. Preservarli non significa essere contrari ai nuovi insegnamenti, ma ricordare che ogni inserimento non può avvenire a scapito di ciò che regge la struttura dell’istruzione.

Infine, la strumentalizzazione politica. Ogni tema educativo, ogni tentativo di innovazione, diventa terreno di scontro ideologico. Così la scuola — che dovrebbe essere laboratorio di pensiero e di futuro — diventa ostaggio di bandiere e slogan. Per questo serve una visione ampia, finalmente condivisa: basta micro-riforme a costo zero, basta risposte di facciata. È tempo di chiedersi che scuola vogliamo per il 2030, che per un elefante come la scuola è domani . Una scuola che non rincorra la cronaca, ma costruisca cultura (che non significa erudizione!); che non insegua il consenso, ma coltivi la coscienza. Perché, se continuiamo a cambiare un pezzetto per volta, senza progetto e senza coraggio, la scuola non rischia solo di non avere futuro: rischia di non avere più nemmeno un presente.

Autore
Panorama

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