La missione amaranto di Andrea Luci, da Piombino a Livorno con realismo: “Odio la lontananza della politica dai problemi della gente”
- Postato il 19 aprile 2025
- Calcio
- Di Il Fatto Quotidiano
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Andrea Luci è entrato il 30 marzo, giorno in cui ha tagliato il traguardo dei 40 anni, in quella terra di mezzo che, come dicono gli psicologi, ti porta dall’età della spensieratezza a quella della consapevolezza. Il centrocampista e capitano del Livorno ha annunciato, un paio di settimane dopo, l’addio al calcio, primo atto forte compiuto nella “terra di mezzo” di una delle ultime bandiere del calcio: quattordici stagioni in amaranto, per un totale di 439 partite e 22 gol. Si è consegnato alla storia come il recordman di presenze con il club, con il quale ha giocato dalla Serie A all’Eccellenza.
La prima sensazione dopo questo addio?
È aver compiuto una missione. Dopo l’esperienza breve di Carrara, interrotta per questioni di famiglia, sono tornato a Livorno per aiutare la squadra a risalire tra i professionisti. È stata dura. Il campionato di Eccellenza è stato il più difficile della mia carriera. Poi tre stagioni in Serie D. La promozione in C ha chiuso il cerchio e ho deciso di mettere fine all’attività perché volevo congedarmi in bellezza.
Perché l’annata in Eccellenza è stata complicata?
È stata difficile per una serie di ragioni: calcio più atletico e meno tattico, campi naturalmente diversi rispetto a quelli ai quali ero abituato, avversari motivatissimi. Affrontavano il Livorno come se fosse il Real Madrid. È stata un’esperienza formativa, ma l’ho affrontata con umiltà e impegno.
C’era una volta un giovane che giocava nella Juventus primavera e al torneo di Viareggio, nel 2005, fu premiato come miglior calciatore del torneo, ma poi, in estate, fu ceduto in prestito alla Torres, in C1. A seguire, altri giri di giostra, tra Pescara e Ascoli, prima di approdare nel 2010 a Livorno: perché a Torino lasciarono andare il ragazzo di belle speranze?
I dirigenti della Juventus dovettero scegliere uno tra me e Marchisio sul quale puntare. I fatti hanno dato ragione a quella decisione. Marchisio è stato un campione.
Poi Livorno.
Sono di Piombino e da bambino tifavo per la Fiorentina, ma Livorno mi ha conquistato. È una città speciale. Molti calciatori che arrivano da altre parti, quando smettono, decidono di restare a viverci.
Livorno: dalla A all’Eccellenza.
La promozione e la stagione in A sono stati lo zenit della mia carriera. Sono legatissimo a quegli anni. I ricordi più belli appartengono a quel periodo.
Nel 2020 lascia Livorno per passare alla Carrarese, ma nel dicembre 2021 il ritorno per problemi di famiglia.
Dovevo stare a casa in un momento molto particolare. Mio figlio Marco ha una malattia rara, la fibroplasia ossificante progressiva, diagnosticata quando aveva sei anni. Dovevo stare vicino a Marco e alla mia famiglia.
Secondo le statistiche, questa malattia colpisce una persona ogni due milioni. Con questi numeri viene da pensare che la ricerca sia molto blanda.
Esatto. Sono le famiglie a sostenere i costi degli studi, con la creazione di onlus e con l’organizzazione di eventi per raccogliere fondi. È una battaglia che affrontiamo nella speranza di trovare una cura. È il sogno di tutti noi che dobbiamo fare i conti con questa malattia. Marco a dicembre compirà diciotto anni e ha un gruppo di amici straordinari. Poi ci sono gli altri due figli. Edoardo gioca a calcio e tifa per due squadre: Livorno e Napoli. Tommaso ha appena due anni e mezzo.
Gli Oscar della carriera: miglior allenatore?
Con Davide Nicola siamo saliti dalla B alla Serie A. Non è solo un ottimo tecnico: è anche una bella persona.
L’avversario più difficile?
Pogba. Sembrava un extraterrestre. Tra gli italiani, dico Verratti. Lo affrontai quando era ancora giovane, ma si vedeva che sarebbe arrivato lontano.
La stagione più difficile?
Quella con Gautieri e Panucci. Mi ero rotto il legamento crociato, un’annata balorda.
Il Livorno è passato in pochi anni dalla partecipazione alla Coppa Uefa al fallimento e alla ripartenza in Eccellenza: come si spiega un crollo così verticale.
Considero Aldo Spinelli il miglior presidente della storia del Livorno. Riportò la squadra in Serie A dopo 55 anni e ci fu addirittura l’acuto della coppa Uefa. Poi però cominciò il declino, fino alla mancata iscrizione al campionato di Serie D nell’estate 2021. La risalita in Serie C è stata la fine di un incubo.
Il suo futuro?
Mi piacerebbe lavorare nel settore giovanile.
Il calcio di riferimento?
Mi piace il calcio propositivo e coraggioso.
Un modello di allenatore?
Ancelotti. È uno dei migliori in assoluto nel mondo.
Il calcio italiano sta facendo i conti con un fenomeno come la ludopatia: la sua opinione?
Penso che siamo di fronte a un’emergenza sociale, non limitata solo al calcio. Il boom delle agenzie di scommesse e la possibilità di poter giocare con estrema facilità, penso ai telefonini, hanno fatto perdere il controllo della situazione.
Il calcio da un lato condanna la ludopatia, dall’altra i presidenti per incassare soldi inseguono la pubblicità delle agenzie: una contraddizione di fondo.
Concordo: un’ipocrisia.
Che cosa le ha dato il calcio?
Mi ha insegnato a vivere. Mi ha fornito un sistema di regole che mi porterò dietro per sempre. Spero di ricambiare in qualche modo quello che ho ricevuto.
Aldo Agroppi, altro piombinese doc, era uno di famiglia.
Aveva sposato la cugina di mio padre. Con lui avevo un buon rapporto. Mi dava consigli, m’incoraggiava. La sua scomparsa è stata un dolore.
Che cosa c’è, oltre il calcio, per Andrea Luci?
Mi piacciono la cucina e i vini. Vorrei seguire corsi specializzati.
Un’altra passione sportiva?
Il tennis. Da sempre. Ora con Sinner e questa formidabile generazione di giocatori l’Italia è diventata una potenza.
Che cosa non le piace dell’Italia di oggi?
La lontananza della politica dai problemi della gente. Il costo della vita aumenta, mentre gli stipendi restano al palo. La situazione è sotto gli occhi di tutti, ma la politica pensa ad altro.
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