Il fondo sovrano norvegese voterà contro il bonus da 1000 miliardi per trattenere Elon Musk in Tesla

  • Postato il 4 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il più grande fondo sovrano del mondo si mette di traverso al nuovo piano retributivo da mille miliardi di dollari proposto per Elon Musk. A rivelarlo è il Financial Times, secondo cui il colosso norvegese da 2,1 trilioni di dollari, che gestisce i proventi del petrolio del Paese e possiede circa l’1,1% di Tesla, ha annunciato che voterà contro la delibera di assegnazione al fondatore e amministratore delegato della casa automobilistica di un nuovo “performance award” fino a 1000 miliardi legato al valore delle azioni e ai risultati operativi. La presidente del gruppo Robyn Denholm, presentando la proposta, l’ha definita “essenziale per trattenere Musk come amministratore delegato” perché se non si riesce a “motivarlo” potrebbe lasciare la posizione di vertice,

La decisione del fondo arriva a due giorni dall’assemblea annuale del gruppo, fissata per il 6 novembre, e rappresenta un duro colpo per Musk, che ha più volte minacciato di lasciare Tesla se il pacchetto venisse nuovamente bocciato dagli azionisti. “Siamo preoccupati per l’entità complessiva del premio, per la diluizione e per la mancanza di meccanismi di mitigazione del rischio per i dirigenti chiave”, ha spiegato il fondo, pur riconoscendo “il valore significativo creato grazie al ruolo visionario del signor Musk”.

“Un segnale per il mercato”

Il fondo norvegese, che da solo detiene circa l’1,5% di tutte le azioni quotate al mondo, raramente rende pubblico il proprio voto in anticipo. Lo fa in questo caso per “assicurare che tutte le informazioni rilevanti siano considerate nell’analisi”. Il messaggio, però, è chiarissimo: per l’investitore istituzionale, il pacchetto di compensi pensato per Musk è sproporzionato rispetto ai criteri di buon governo societario che il fondo stesso adotta nelle sue partecipazioni globali. Non è la prima volta che Oslo si oppone. Già nel 2023 il fondo aveva votato contro la concessione al patron di Tesla di quello che allora era il più grande piano retributivo nella storia aziendale statunitense, pari a 56 miliardi di dollari. L’accordo, approvato dagli azionisti a giugno, è stato poi annullato da un tribunale del Delaware a dicembre, che ha giudicato il processo decisionale del board “viziato” e troppo concentrato sul volere dell’ad.

Il fronte del “no” si allarga

Anche due grandi società di consulenza per gli azionisti, Glass Lewis e ISS, hanno raccomandato di respingere il nuovo piano da 1.000 miliardi di dollari, legato a obiettivi particolarmente ambiziosi sul prezzo delle azioni e sulle performance industriali. A loro si sono aggiunti diversi fondi pensione statunitensi, che in una lettera aperta hanno accusato il consiglio di amministrazione di Tesla di aver “danneggiato la reputazione del gruppo” nella sua “ricerca incessante di trattenere Musk a ogni costo”.

Musk contrattacca

Il diretto interessato, intanto, non ha fatto mistero del suo disprezzo per chi contesta la sua remunerazione. Sul social network X, di cui è proprietario, ha replicato alle accuse: “Tesla vale più di tutte le altre case automobilistiche messe insieme. Quale di quei CEO vorreste che dirigesse Tesla? Non sarei io”. In un’intervista ha definito ISS e Glass Lewis “terroristi aziendali”, accusandoli di voler limitare la libertà d’azione dei manager visionari. La fortuna personale del miliardario, oggi l’uomo più ricco del mondo, resta comunque legata in gran parte al valore delle azioni Tesla, che negli ultimi cinque anni si sono più che triplicate, portando la capitalizzazione di mercato del gruppo a circa 1.500 miliardi di dollari.

L’ennesimo scontro, dunque, si inserisce in una lunga scia di tensioni tra Musk e i grandi investitori istituzionali, sempre più attenti a temi di governance e remunerazione. Stavolta, però, la partita vale molto di più: il voto di Oslo, che spesso orienta altri fondi globali, potrebbe essere decisivo nel determinare il futuro del più discusso pacchetto retributivo nella storia del capitalismo americano.

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Il Fatto Quotidiano