Gianni Berengo Gardin “il fotografo semplice” che ha raccontato il Novecento
- Postato il 10 agosto 2025
- Fotografia
- Di Artribune
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Succede sempre. Se scompare una persona che ha lasciato un segno nella vita la mente trova subito i ricordi. Ed ecco che la scomparsa di Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930 – Genova, 2025) mi ha riportato a Milano, in un pomeriggio di una decina di anni fa. Dovevo intervistarlo per l’Espresso quando l’allora sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, censurò la sua mostra sulle Grandi Navi, rimandandone “sine die” l’inaugurazione. Peccato. Era tutto pronto: il titolo Mostri a Venezia, le sale di Palazzo Ducale, le foto e le cornici, persino il catalogo. “Ma quelle fotografie fanno paura…» mi disse «eppure sono un semplice fotografo e non pensavo di essere così potente. In fondo al cuore ne sono lusingato”.
Gianni Berengo Gardin nel ricordo della giornalista e critica d’arte Alessandra Mammì
In effetti si presentava così: semplice, ironico, mite. Ma si capiva che era un combattente. Sapeva benissimo che certe immagini sono pallottole, che nel suo implacabile bianco e nero la minacciosa presenza di quei giganti di metallo contro la fragilità della bellezza veneziana, valevano più di qualsiasi petizione. Sapeva anche “che prima o poi la mostra si farà. Non so dove, ma sarà un successo”.
Così nella sua strana casa ricavata da un sottotetto di un palazzo storico, dove ci si perdeva in un labirinto di libri, oggetti, volumi, souvenir di viaggi, faldoni con migliaia di immagini che dividevano lo spazio come siepi in un giardino, l’intervista si trasformò in una lunga conversazione. E la conversazione in un bell’incontro che lascia un segno.
L’antologica di Gianni Berengo Gardin a Palazzo delle Esposizioni di Roma: un omaggio da tutto il mondo della cultura
Qualche mese dopo Alessandra Mauro, sua amica e stimatissima storica della fotografia, mi chiamò per curare insieme una vasta antologica di Berengo Gardin al Palazzo delle Esposizioni di Roma, divisa per i grandi temi che aveva affrontato nella sua lunga carriera e soprattutto con una sala interamente dedicata alle immagini delle Grandi Navi. Come lui aveva previsto: fu un successo.
Ma a caratterizzare quella mostra fu il corale omaggio che arrivò dal mondo della cultura a sostegno del “semplice fotografo”. Avevamo pensato di chiedere a molti rappresentanti di diverse arti e discipline di scegliere una sua foto e commentarla. E il successo dell’iniziativa superò le nostre aspettative. Nessuno degli interpellati si tirò indietro.
Carlo Verdone il giorno dell’inaugurazione s’inginocchiò platealmente salutandolo; Marco Bellocchio che con lui condivise negli anni Settanta la solidarietà con Franco Basaglia, commentò i suoi drammatici reportage sui manicomi; Franco Maresco invece si sentì attratto dall’allegria dei suoi zingari. Artisti come Mimmo Paladino, Kounellis, Alfredo Pirri ne analizzarono la complessità formale; critici come Lea Vergine o Goffredo Fofi si tuffarono nella realtà della cronaca. E lungo fu l’elenco di architetti, come Renzo Piano o Stefano Boeri; giornalisti, Mario Calabresi; scrittori Roberto Cotroneo; sociologi, Domenico De Masi; colleghi, da Ferdinando Scianna a Sebastião Salgado. Ognuno sceglieva il suo Berengo, l’immagine in cui riconoscersi e se ne appropriava con un pensiero, un ricordo, un aneddoto. Una piccola antologia, che fu raccolta in un prezioso cataloghino. “Vera Fotografia”, edizioni Contrasto.
Alcuni pensieri in omaggio a Gianni Berengo Gardin
“Eravamo assieme sul cantiere dell’aeroporto di Osaka, nel Kansai, e Gianni stava immobile con il dito sul pulsante della sua Leica. Dieci minuti buoni senza muoversi. Come un cacciatore. Poi improvvisamente schiaccia e scatta la fotografia, si gira e mi dice: fatto. Fu uno dei memorabili istanti della mia vita di cantiere…” Renzo Piano”.
“Penso davvero a lui come all’italiano buono, al giusto al diverso” Goffredo Fofi.
“Un fotografo dell’uomo lo è da sessant’anni e sempre con la stessa determinazione” Sebastião Salgado.
“Un sacerdote di umana semplice bellezza…Nel suo sguardo c’è un profondo affetto per l’essere umano unito a un costante stupore per ciò che lo circonda…l’emozione di un bianco e nero così particolare che sembra trasformarsi in un colore a noi sconosciuto” Carlo Verdone.
Il severo commento di Lea Vergine sul progetto “Grandi Navi”
Ma tra i molti commenti è quello di Lea Vergine sulle Grandi Navi a restituire parole alle immagini e trasformarle in severo “J’accuse”:
“Guardo le foto della serie Venezia e le Grandi Navi, dei bastimenti che violentano gli spazi della divina città. Non un’elaborazione virtuosistica per creare situazioni stravaganti; non scenografie inventate per trascrivere un’allucinazione orrifica o una visione mostruosa e angosciante, fuori della logica come è delle visioni; non un incubo teatralmente spaventoso: tutto questo è accaduto veramente ed è stato fotografato dal 2013 al 2015. Sembrerebbero progetti di un’immaginazione pervertita. La nave appare immobile; capiamo che l’incontro tra la staticità̀ della terraferma e il moto di una nave, del silenzio sbigottito di chi guarda e del rumore della nave, dà alle foto il senso di un accadere concreto e, tuttavia, improbabile. Ogni didascalia superflua. Il tutto è molto spettacolare. Molto immorale in quanto realmente perpetrato. Berengo Gardin sottolinea un’immobilità che sembrerebbe incompatibile con l’inevitabile fracasso di una nave e di una città.
Qualcosa di funebre e di tristo in questa innaturalità. Una gelida seduzione che parla di morte”.
Gianni Berengo Gardin un testimone del proprio tempo…
Il “semplice fotografo” sapeva benissimo che di fronte alla “Vera Fotografia” e per quel suo bianco e nero “dove non c’è cielo turchino ad attutire l’effetto”, la didascalia era superflua. “Non è nelle mie intenzioni fare foto d’arte e se mi dicono che sono un artista nego fermamente. Non per modestia, semmai per presunzione. Io sono un testimone del mio tempo, registro quel che vedo e sono convinto che una foto-documento sia più importante di una foto artistica”.

…ma anche un artista dalla spiccata sensibilità
E qui si sbagliava, perché il fatto di non voler far foto artistiche non significa non essere un artista. Quell’artista che Kounellis riconosce quando in una sua foto di un monastero senese vede “un’immagine rinascimentale e metafisica: tutte e due le figure hanno la stessa altezza, quella di sinistra che sta per entrare nella porta è vista in prospettiva mentre l’altra è all’interno di un confine architettonico ed è presente da sempre in questa posizione. Il monaco di sinistra, ancora uno o due passi, scomparirà̀ nella cavità; l’immagine cambierà̀ significato, non più̀ semplicemente un punto di vista da fotografo ma anche un’involontaria regia: rimarrà il dipinto”
Berengo temeva la trappola di un facile estetismo, fuggiva dalla bellezza fine a sé stessa cercava l’essenza stessa della realtà anche in ciò che ci circonda quotidianamente. Per questo riesce come pochi a entrare nella mente e nella vita di Giorgio Morandi con delle immagini che valgono più di un testo.
La mostra a Perugia sul reportage di Berengo Gardin sullo studio di Morandi
Vedere per credere. A Perugia, tra le meravigliose sale delle Galleria Nazionale dell’Umbria, c’è in una piccola stanza dedicata alla fotografia (progetto di Marina Bon Valsassina e Costanza Neve). Si chiama Camera Oscura ed è uno scrigno che fino al 28 settembre raccoglie una mostra dedicata al reportage di Berengo sullo studio di Morandi (a cura di Alessandra Mauro). Dialogo intimo tra due visioni unite dalla stessa lucidità di sguardo, ricerca di una certezza che dia peso alle cose, capacità di riconoscere l’assoluto che si rivela in una bottiglia. Berengo vede l’arte e la poetica di Morandi nella disposizione delle ciotole su uno scaffale, nella presenza di un imbuto, nelle bottiglie riflesse in uno specchio appeso a un chiodo, nei ripiani usati come base delle composizioni.
L’essere umano nella fotografia di Gianni Berengo Gardin
E poi va oltre, “cerca l’uomo” direbbe Salgado. E lo trova nei suoi oggetti, nei suoi gesti, nella luce della sua stanza, nella finestra dischiusa della casa di campagna. Ogni cosa gli serve a comporre un ritratto dell’artista: un cappello poggiato su faldoni, il letto malmesso, il vecchio pavimento in cotto sciupato dai calpestii, il tavolo da lavoro ricoperto di sdrucita carta da imballaggio fermata con le puntine. Berengo ha visto. Ha visto il pittore e ha visto l’opera. E ha impresso entrambi nella realtà della pellicola.
“Non uso il digitale. Mi dicono che ora ci sono macchine che simulano la grana della pellicola ed altre che rendono sorridenti anche le persone tristi, perché (e questo è il guaio) nel digitale è la macchina che pensa, non il fotografo al quale non resta che scattare foto a mitraglia, poi un effetto speciale lo salverà. No, non è il mio mestiere”.
Gianni Berengo Gardin un fotografo radicato nella parte più bella del Novecento
Di più: non è il suo mondo. Il suo è inciso nella parte più bella del Novecento fatta di grandi speranze di cambiare e migliorare il mondo, ma anche dell’umiltà nell’ osservarlo con tenerezza e sincerità.
Viene in mente l’“italiano buono” di Goffredo Fofi “colui che vivendo e raccontando l’Italia è riuscito a salvaguardarne un’immagine di cui non vergognarsi. Questo dipende, è ovvio, dai soggetti che ha fotografato nel corso di una lunga esperienza, dal fatto di esserseli trovati davanti e non solo di averli cercati, scelti. Ma le sue foto dimostrano non solo l’attenzione al presente e alle sue manifestazioni, dimostrano l’adesione a quella parte del presente che egli ha inteso e intende salvare dall’oblio, permettendoci il confronto tra i diversi presente e soprattutto tra il presente di ieri e il nostro oggi, quando la mutazione ha cancellato e sfigurato tanti luoghi e volti ma per nostra fortuna, poiché nonostante tutto la vita continua, permette ora il confronto con volti nuovi, pur se in luoghi avviliti. Berengo Gardin ha cercato l’italiano buono perché era lui a essere tale e lo è ancora, e continua infatti a cercare negli altri una conferma della sua visione, la proiezione della sua speranza. La sua fotografia rassicura e dà forza in tempi che comunicano piuttosto disperazione che fiducia”.
Una speranza in bianco e nero il più possibile vicino alla verità e lontana dalle illusioni, dalle utopie, dalle mistificazioni, dai facili effetti, dalle trappole del virtuale e dagli spettri dei colori che distraggono con i loro cieli turchini. Che poi, come insegna Berengo, sappiamo che nella realtà turchini non sono.
Alessandra Mammì
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