Genova senza acciaio, fra la torre di Babele a Sestri Ponente e l’inferno annunciato a Cornigliano
- Postato il 23 novembre 2025
- Politica
- Di Blitz
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La chiamavano la Stalingrado d’Italia perché, alla periferia occidentale di Genova, era il quartiere più rosso- comunista che ci fosse in una città tendente politicamente a quel colore.
Sestri Ponente vuol dire ancora Fincantieri, la grande fabbrica delle navi che ne sforna sempre e sempre più grandi colossi del mare per crociere da 5000 passeggeri, tanto grandi che stanno ampliando il cantiere con una operazione di ribaltamento a mare.
Al confine di Genova

E il quartiere che confina con la Cornigliano, dove la produzione di acciaio si sta spegnendo nello stabilimento che aveva portato a Genova il ciclo integrale, il primo altoforno europeo negli anni Cinquanta, riempendo il mare con le montagne per dare spazio alla siderurgia del grande boom economico.
Là a Sestri migliaia di operai a far navi e a Cornigliano le colate di fuoco con altre migliaia di operai, fino ai 17 mila degli anni Sessanta-Settanta, da un padrone all’altro, dai Perrone. grande famiglia proprietaria dell’Ansaldo, che voleva dire come una Fiat, all’Iri con l’Italsider, poi Ilva, fino al padronRiva poi espropriato, quando a Taranto i giudici avevano seppellito lo stabilimento diventato la madre di tutto e, infine quasi, a Acelor Mittal, proprietà indiana, fino a oggi Acciaierie d’Italia, che potrebbe essere il de profundis.
La protesta manda in tilt la città
E allora ecco la protesta che manda in tilt il traffico della città e delle autostrade intorno a questo epicentro dell’acciaio, dove gli operai occupano, fanno esplodere la loro rabbia accumulata davanti a 1200 posti di lavoro e forse anche più che il governo sta per “bruciare”.
Il destino di Genova si attorciglia di nuovo nel suo Ponente votato alle fabbriche, ai cantieri, alle infrastrutture, alle spiagge cancellate, al mare riempito, all’aria che puzza, al fumo nero e oggi, di fronte a una trasformazione totale, che potrebbe capovolgere ancora tutto in questo fine 2025.
Lo spettro della chiusura
Lo spettro temuto della chiusura di Cornigliano arriva di colpo, ma non troppo con la decisione di mettere in cassa integrazione tutti gli operai , mille, davanti al fallimento dei piano governativo per rilanciare la siderurgia.
È un serpente che sale da Taranto, dove tutto è chiuso da tempo e da dove doveva ripartire una nuova era della politica industriale italiana con i forni elettrici, dei quali uno era previsto in questo stabilimento che il mondo invidia perché è a bordo banchina.
Asta internazionale senza neppure un acquirente dei tanti che dal mondo guardavano alla filiera italiana dell’ex Italsider.
La miccia brucia a Genova
E ora la miccia brucia proprio a Genova in un giorno grigio di novembre, sciopero immediato, cortei, stabilimento occupato e un fantasma che non era mai comparso: la CHIUSURA totale, la fine dello stabilimento, non solo, anche la cassa integrazione che il governo garantisce come l’apertura a corsi di formazione verso cosa?
Si avanzano altre prospettive come la vendita separata da Taranto e quindi una autonomia genovese per produrre in collegamento con altri stabilimenti. Ma sono discorsi al vento freddo dell’inverno che arriva dal mare e investe la delegazione i cui palazzi sono ancora anneriti dai fumi di settanta anni di acciaio. Le strade, le finestre affacciate su questa enorme fabbrica che dal 2005 ha spento l’altoforno e le cokerie, da cui l’acciaio colava ma dove erano rimaste la produzione a freddo, la latta, i coils rilavorati.
Che fine faremo a Cornigliano
Che fine fa questo largo pezzo di Genova quello che confina anche con l’aeroporto e le sue piste semivuote di aerei? Oggi quello che brucia insieme ai copertoni e ai bancali incendiati per riscaldare gli occupanti, è sopratutto il destino dei lavoratori insieme a quello decisivo dell’industria a Genova, che non è solo questo ma che aveva qua il suo cuore palpitante.
Che ne sarà dei posti di lavoro, ma anche degli spazi immensi se la catastrofe diventasse una realtà a cui nessuno vuol pensare, ma che sembra possibile sempre di più.
Tra le speranze che anche il presidente della regione Marco Bucci, corso subito in fabbrica con la sindaca Silvia Salis, ha evocato con la “vendita separata”, c’ è la prospettiva di un possibile interesse del mitico cavalier Giovanni Arvedi, grande acciaiere privato italiano. Come risulta a Blitzquotidiano questo grande imprenditore ( che recentemente ha rilevato Trieste e Terni) era stato già interpellato per l’operazione complessiva degli stabilimenti ex Acelor Mittal e aveva declinato la possibilità, ma in modo collaborativo, suggerendo anche qualche passaggio che avrebbe facilitato una ripresa tra Taranto, Genova e Novi Ligure, dove c’è il terzo stabilimento della filiera, il cui destino è legato a Genova.
Si ignora se la posizione di Arvedi ora possa cambiare, ma è chiaro che la solidità delle sue imprese potrebbe almeno aprire uno spiraglio di luce nel buio di Cornigliano.
A Sestri Ponente, la ex Stalingrado, il destino è molto diverso di fronte alle grandi prospettive del cantiere che ha navi da costruire fino a tutto il 2029.
Qui quello che trema è un po’ il tessuto urbano di una delegazione che, a parte le sue connotazioni politiche di un tempo che fu, aveva una vivacità autonoma molto significativa con una grande forza commerciale.
Nei giorni scorsi ha dolorosamente chiuso una delle cattedrali dell’identità sestrese, Giglio Bagnara, grande stabilimento commerciale, una specie di Harrod’s genovese a più piani, di proprietà di grandi famiglie, con una tradizione di oltre 150 anni e nomi di amministratori nobilissimi, come appunto Bagnara, Pescetto e infine Montolivo e una presenza forte, connotativa di tutta la delegazione.
Schiacciata dalla rivoluzione commerciale, dalle vendite on line, dall’assalto della grande distribuzione, Bagnara ha alzato bandiera bianca e questo ha simboleggiato il vero cambio dell’anima di Sestri. Cambia non solo lo spirito del commercio nella desertificazione galoppante, ma cambia anche la composizione sociale di questa storica delegazione.
Non è difficile capirlo, se si ricostruisce che oggi la maggior parte della mano d’opera, che lavora nel grande cantiere delle navi è straniera, su 4 mila operai la maggioranza sono cingalesi del Bangladesch, 1284, solo 1197 italiani, 326 rumeni 189 marocchini 156 equadoregni e 91 del Senegal.
Una torre di Babele, che già si era raccontata nei cantieri di Monfalcone, ma che qua sta producendo effetti per esempio anche sul mercato immobiliare della ex Stalingrado d’Italia, dove chiudono le botteghe storiche, dove gli affitti crollano, gli alloggi vengono frazionati per ospitare le famiglie di immigrati e dove perfino le luminarie di Natale ora sono in arabo e in cinese.
Una rivoluzione epocale è incominciata sotto il Natale 2025 nel Ponente genovese, quello che aveva caratterizzato lo sviluppo post bellico fino agli anni Settanta e che con la crisi dell’Iri, all’inizio degli anni Ottanta, aveva incominciato a invertire la sua marcia con la trasformazione della città.
Se chiude l’acciaio, per produrre il quale l’assetto genovese era stato capovolto, questo pezzo genovese cercherà un altro destino e che non sarà solo quello di fare navi nella Torre di Babele.
Ma nessuno può immaginarlo, mentre tutta la città è paralizzata dal blocco degli operai ex Ilva, ai quali nessuna autorità istituzionale sa dare una certezza, che non sia quella di una cassa integrazione totale che prelude alla chiusura. Un Apocalisse industriale, dove tutto era cominciato.
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