Dove non arrivò Mao, potrebbe arrivare il papa. Il complesso rapporto tra Cina e Chiesa Cattolica

  • Postato il 26 giugno 2025
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  • Di Formiche
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Papa Leone si troverà presto ad affrontare uno dei dossier più strategici e intricati della politica estera della Santa Sede: il rapporto con la Repubblica Popolare Cinese. Un tema che, per decenni, è stato gestito con cautela estrema dalla diplomazia vaticana, ma che negli ultimi anni ha assunto una centralità nuova anche per Pechino. A spingere il Partito Comunista Cinese ad aprirsi a un confronto con la Santa Sede non è stata una spinta religiosa, bensì un’urgenza politica nata da un vuoto ideologico e spirituale sempre più evidente all’interno della società cinese. In un suo commento pubblicato da The Appia Institute, il sinologo Francesco Sisci ripercorre le tappe del dialogo in questione.

L’episodio che segnò una svolta fu la clamorosa manifestazione del movimento Falun Gong, avvenuta il 25 aprile 1999, quando più di diecimila aderenti al gruppo circondarono pacificamente Zhongnanhai, sede della leadership centrale, per protestare contro le restrizioni alle loro pratiche spirituali. L’episodio rivelò al partito che la popolazione cinese, dopo decenni di propaganda atea e disillusione ideologica, era alla ricerca di nuove forme di fede. La protesta, avvenuta appena dieci anni dopo la repressione di Piazza Tiananmen, fu percepita come una minaccia all’ordine politico.

Di fronte all’impossibilità di soddisfare internamente questa domanda, alcuni settori del partito iniziarono a considerare l’idea di affidarsi a religioni esistenti e strutturate, in grado di offrire un riferimento spirituale e al tempo stesso una cornice di controllo. A differenza delle confessioni protestanti o buddiste, molto frammentate e difficili da gestire sul piano locale, la Chiesa cattolica presentava una struttura centralizzata, con un unico punto di riferimento esterno: Roma. Paradossalmente, questa distanza offriva una maggiore stabilità. Invece di dover trattare con una miriade di leader religiosi, bastava un dialogo diretto con il Vaticano.

Proprio indagando sulla questione delle nomine episcopali, le autorità cinesi scoprirono che molti vescovi ufficialmente approvati da Pechino avevano in realtà ottenuto, in segreto, il riconoscimento papale. La mediazione era spesso affidata alla missione cattolica di Hong Kong. Questo sistema, se formalizzato, poteva diventare un punto di equilibrio. La Chiesa avrebbe mantenuto l’autorità spirituale, mentre la Repubblica Popolare avrebbe preservato la propria sovranità civile.

Questo principio fu sancito idealmente dalla lettera che Papa Benedetto XVI indirizzò nel 2007 ai cattolici cinesi. Il Pontefice invitava i fedeli a essere pienamente parte della società cinese, rifiutando l’etichetta di “quinta colonna” dell’Occidente. Ma il testo suscitò reazioni contrastanti: alcuni cardinali la considerarono troppo conciliatoria, mentre le autorità cinesi si opposero a un passaggio che criticava l’Associazione Patriottica Cattolica, l’organismo creato da Pechino negli anni ’50 per controllare la Chiesa sul territorio nazionale. L’Associazione, nel tempo, si era trasformata in un centro di potere autonomo, slegato sia da Roma che dal partito centrale.

Un’occasione per superare lo stallo si presentò nel 2012, con la nomina congiunta del vescovo Ma Daqing a Shanghai. Tuttavia, al momento dell’ordinazione, Ma annunciò pubblicamente il proprio distacco dall’Associazione Patriottica. Il gesto fu interpretato dalle autorità cinesi come un affronto, e la fiducia conquistata fino a quel momento venne bruscamente interrotta.

Fu solo con l’elezione di papa Francesco nel 2013 e l’ascesa del cardinale Pietro Parolin alla segreteria di Stato che il dialogo poté riprendere in maniera sostanziale. Parolin, profondo conoscitore della realtà cinese fin dai primi anni Duemila, seppe riannodare i fili. Un momento simbolicamente decisivo fu il 2015, anno in cui il viaggio di Papa Francesco negli Stati Uniti ottenne una copertura mediatica e una risonanza superiore perfino alla visita del presidente Xi Jinping. Per Pechino fu un campanello d’allarme: il Vaticano, benché privo di esercito o potere economico, restava una potenza culturale e diplomatica di primo livello.

Due anni dopo, nel 2018, si giunse alla firma dell’accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi. I dettagli dell’intesa restano riservati, ma l’accordo ha segnato un importante riconoscimento reciproco, con che accettava Roma accettava la proposta di nomina da parte di Pechino, riservandosi però l’ultima parola. Una formula di compromesso che ha permesso, pur tra critiche e resistenze, l’avvio di un percorso di regolarizzazione.

Papa Leone eredita ora questo processo in corso, consapevole che molto resta da definire: la questione dell’Associazione Patriottica, le condizioni dei cattolici “clandestini”, la possibilità di un viaggio pontificio in Cina. Ma al centro resta una convinzione: in un mondo diviso da tensioni geopolitiche, il dialogo tra Roma e Pechino può ancora offrire un esempio di diplomazia spirituale, fondata sulla pazienza, sul rispetto e sulla lunga memoria della Chiesa.

Autore
Formiche

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