“Ci chiamano ‘sporchi’ e ci sequestrano tutto quello che possediamo, anche i telefoni”: le testimonianze dei rimpatri forzati dall’Iran all’Afghanistan

  • Postato il 15 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ai confini occidentali dell’Afghanistan, la strada verso casa non ha niente di accogliente. È un corridoio di calore, polvere e perdita, dove gli afgani deportati tornano non con valigie ma con niente, spesso portando solo il peso di ciò che è stato loro tolto. In questi luoghi, le vite si frantumano in pochi minuti, i beni vengono sequestrati, i risparmi spariscono, la dignità è strappata via prima della spinta finale oltre il confine. Da inizio 2025, sono stati oltre un milione i rifugiati afghani che sono stati rimpatriati da Pakistan e Iran. In particolare, Teheran sta portando avanti deportazioni di massa: le tensioni sono aumentate dopo la guerra con Israele e le accuse di coinvolgimento da parte di cittadini afghani in operazioni del Mossad. Le espulsioni riguardano decine di migliaia di persone che sono costrette a rientrate in un Paese che già si trova ad affrontare una profonda crisi economica. Questa è la realtà a Zaranj, nella provincia di Nimrooz, a Islam Qala, nella provincia di Herat, e in altri punti di passaggio, raccontata attraverso le voci di coloro che sono appena rientrati in Afghanistan. Nelle storie che seguono, parlano di giorni senza acqua, notti senza riparo, neonati trattenuti fino al pagamento di riscatti e bare che arrivano senza spiegazioni.

“Prima di essere respinti, tolgono loro tutto: dal denaro ai telefonini”
“Nessuno può prevedere quando arriveranno le persone”, racconta Wakeel Khorami, operatore umanitario presso l’area di confine di Zaranj (Nimrooz). “Alcune notti arrivano all’una del mattino, altri giorni l’afflusso inizia alle cinque del pomeriggio sotto un sole che sembra fuoco. Il calore arriva a 51 gradi, la polvere si attacca alla pelle e ai vestiti, e gli anziani e i bambini soffrono di più. Arrivano esausti, dopo ore di cammino, e a volte vengono trattenuti nei campi per altre ore, anche tutta la notte, prima di poter ripartire”. E continua: “Una delle cose più crudeli è che molti vengono mandati di proposito a confini lontani dalle loro città e province, per rendere il ritorno a casa più difficile e creare più problemi anche dopo essere stati scaricati in Afghanistan. Alcuni sono nati in Iran o ci hanno vissuto tutta la vita. Non conoscono l’Afghanistan, le sue strade, le sue città, o come sopravvivere qui”. Khorami racconta anche in che condizioni arrivano queste persone: “Prima che vengano respinti, viene tolto loro tutto: denaro, conti bancari, beni, proprietà, persino i telefoni. Molti arrivano qui a mani vuote. Uomini e donne soli, senza famiglia, sono quelli che soffrono di più. Spesso il governo afghano non li tratta allo stesso modo, li lascia fuori dalle liste di assistenza e affrontano seri problemi anche solo per passare i controlli biometrici e le procedure di base. Se non fosse per i volontari, molti sarebbero morti. Portiamo riso, pane, acqua, succhi, forniture igieniche, tutto ciò che riusciamo. Le persone si organizzano in gruppi: alcuni rifiutano denaro e comprano direttamente gli articoli, altri accettano soldi ma danno ricevute e pubblicano foto, così i donatori sanno esattamente dove sono finiti. Il bisogno non finisce mai. I bagagli possono impiegare uno o due giorni ad arrivare. Le famiglie dormono negli angoli in attesa. Da qui a Kabul servono da 1.000 a 2.000 afghani a persona, soldi che quasi nessuno ha dopo aver pagato per lasciare l’Iran”.

“Siamo andati in ospedale e non volevano curare mio figlio di 6 anni investito da motociclette”
“Mio figlio era seduto fuori con i suoi amici quando dei motociclisti iraniani sono arrivati, lo hanno travolto e sono scappati senza fermarsi”, racconta Sardar Ahmad Wali che si trova a Islam Qala (Herat) ed è padre di un bambino di sei anni investito da motociclisti in Iran. “Era verso le quattro del pomeriggio. L’ambulanza è arrivata tardi. Siamo andati in ospedale la sera e abbiamo aspettato fino alle otto, ma nulla. Hanno rifiutato di curarlo perché siamo afgani. Gli iraniani venivano presi subito, uno dopo l’altro. Mio figlio piangeva con una gamba rotta, e loro dicevano solo: ‘Aspettate.’ Ci hanno lasciati ad aspettare fino al mattino prima di mettergli finalmente il gesso. Sono andato dalla polizia, che mi ha detto di procurarmi le immagini delle telecamere. Sono andato da un negozio vicino e ho chiesto i filmati, ma il proprietario ha rifiutato e mi ha insultato: ‘Afghani Kasafat,’ che significa afghano sporco. È così che ci vedono lì. Ti feriscono due volte: prima con quello che fanno al tuo corpo, e poi con quello che dicono al tuo volto e alla tua dignità. Questo è solo uno dei migliaia di episodi quotidiani che gli afgani subiscono in Iran dai cittadini comuni: dalle aggressioni di gruppo e individuali agli attacchi contro donne afghane”.

“Penso solo a come tenere in vita mia moglie fino alla prossima settimana”
“Lavoravo in una fattoria in Iran”, spiega Rahmat Gul (pseudonimo) che si trova a Islam Qala (Herat) ed è un lavoratore agricolo deportato mentre la moglie riceve cure per il cancro. “Pagava poco, ma ci teneva in vita. Mia moglie ha un cancro al seno; in Iran aveva appuntamenti regolari e speranza. Poi siamo stati deportati. Siamo tornati questa mattina senza niente: nessuna casa, nessun lavoro, neppure l’ultimo stipendio che mi dovevano. Il prossimo trattamento di mia moglie è vicino, e non posso pagare né affitto, né cibo, né medicine. Non penso a domani, penso solo a come tenerla in vita fino alla prossima settimana.”

“Ci gridano ‘afgani sporchi'”
“Ora penso che forse ho fatto un errore ad andare in Iran”, dice Omid Khalili, espulso con la sua famiglia di sei persona e ora a Islam Qala, (Herat). “Forse ci sono andato perché temevo per la sicurezza della mia famiglia, o forse perché pensavo di non avere altra scelta che cercare rifugio lì. Ma dopo aver vissuto lì, dopo aver visto la loro gente, il loro sistema, il loro trattamento verso di noi, credo questo: è meglio morire nel proprio paese che vivere come un re in quello di qualcun altro. Al cancello, con i documenti pronti, gli ufficiali mi hanno comunque insultato e spintonato. Ho detto: ‘Credete in Allah?’ Mi hanno risposto: ‘Afghani Palid, Afghani Kasafat,’ afgano sporco.
Andarsene non è gratis. Per la mia famiglia ho pagato sedici milioni di toman, circa 150 dollari, per l’autobus fino al confine, e sei milioni di toman, circa 65 dollari, come tassa “municipale”. Se non puoi pagare, ti tirano giù dall’autobus dei deportati. Ho visto persone mendicare nel campo per ottenere i soldi, e ti costringono a farlo. Se non hai niente, ti prendono il telefono o la borsa. Il campo dove ti tengono se non puoi pagare è crudele: il caldo è insopportabile, le condizioni sporche. Siedi in quel posto, umiliato, finché qualcuno fuori non ti porta i soldi o finché non ti spogliano di ciò che ti resta.”

“L’ospedale mi ha chiesto soldi per riavere indietro mio figlio”
“Quando è stato il momento del parto, l’ospedale mi ha perquisito prima ancora di guardare mia moglie”, ha detto Nasiruddin Fayaz padre di un neonato e ora a Islam Qala (Herat). “Tasche, borsa, tutto, cercando soldi. Dopo la nascita hanno mandato a casa mia moglie ma hanno trattenuto il bambino, dicendo che aveva ‘ittero neonatale.’ Per cinque giorni il mio neonato è stato trattenuto lì senza latte adeguato. Hanno detto che me lo avrebbero restituito solo se avessi pagato cinque milioni di toman, tra 500 e 600 dollari. Ho preso in prestito soldi da chiunque conoscevo e ho ripreso mio figlio. Ho visto altre famiglie afghane nella stessa trappola. Tengono i bambini come se fossero una garanzia”.

“Hanno resituito mio nipote in una bara”
“Dicono che è stato un incidente”, è la testimonianza di Habib Noor, uno zio che ha ricevuto il corpo del nipote alla frontiera e ora parla da Islam Qala (Herat). “Mio nipote aveva trentadue anni, celibe, lavorava nei campi in Iran. Questa mattina ce lo hanno restituito in una bara. Nessuna spiegazione oltre a quella parola. Sua madre è ancora lì e sarà deportata presto. Era partito per guadagnare ed è tornato silenzioso e pesante. Lo porteremo al nostro villaggio e lo seppelliremo, ma non sapremo mai cosa è successo davvero.”

Tra le sedie rosse, verdi e blu delle sale di accoglienza, sotto ventilatori a soffitto che girano lentamente, queste storie si ripetono in bocche diverse. Un bambino che segue il bordo del suo gesso con un dito, un marito che piega fogli medici che non sa più come usare, un padre che conta i giorni tra la nascita e il riscatto, uno zio che cammina accanto a una bara. A Zaranj e Islam Qala i confini non sono solo una linea sulla mappa. Sono un luogo dove le vite vengono spogliate, dove il viaggio di ritorno inizia con niente se non i vestiti che si indossano, e dove, per molti, la strada davanti porta in un paese che non hanno mai davvero conosciuto.

*I nomi utilizzati sono pseudonimi come richiesto dagli intervistati

*Foto di Muhammad Balabuluki

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