Che cosa si può chiedere a Meloni

  • Postato il 17 aprile 2025
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Che cosa si può chiedere a Meloni

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Non chiedete a Giorgia Meloni di essere Emma Bonino, ha scritto Giovanni Orsina sul Giornale due giorni fa, e non si può dargli torto. Con piena consapevolezza strategica, la leader di una destra nata in contrapposizione al progetto di integrazione europea ha riportato una maggioranza degli elettori italiani nel perimetro psicologico dell’Europa, ha sostenuto senza tentennamenti la causa ucraina, ha difeso le alleanze e i principi dell’Atlantismo.

Questa politica è tanto più apprezzabile quanto più si è dovuta confrontare, e talvolta misurare, con smarcamenti competitivi e tentazioni putiniste della Lega, con l’ambiguità di un’opposizione egemonizzata dal pacifismo di Giuseppe Conte, e con un’opinione pubblica indisponibile a sostenere i costi di una Difesa continentale, e propensa a preferire una pace ingiusta a una doverosa resistenza. I contatti e la consonanza di intenti con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen smontano i residui dubbi di lealtà che l’opposizione – vedi l’intervista del vicesegretario del Pd Giuseppe Provenzano a “la Repubblica” – solleva sul viaggio americano della premier.
E tuttavia ci sono ragioni per chiedere a Meloni più di quanto abbia fatto fin qui. La prima delle quali, quella commerciale, è la più evidente ma non la più importante.

Certo, l’ostinazione con cui Trump ha risposto alla proposta di azzerare i dazi reciproci con l’Europa fa della moral suasion della premier una missione proibitiva. Il presidente Usa dimostra di non temere l’isolamento che la sua rappresaglia protezionista può costare all’America, e nemmeno il rischio che la Cina possa beneficiarne, perché la sua strategia politica risponde a un’ideologia isolazionista e autarchica, il cui dividendo, prima che economico, è identitario.

Non si può escludere che, dopo aver minacciato l’Europa, Trump possa concedere a Meloni l’ennesima marcia indietro, riconfermando la premier come interlocutrice privilegiata, anche al fine di umiliare la leadership franco-tedesca e dividere le cancellerie del Vecchio Continente. Ma un auspicabile disarmo reciproco dei dazi non chiuderebbe la crisi apertasi tra le due sponde dell’Atlantico, poiché troppi passi decisivi Trump ha fin qui compiuto per disarticolare la cornice di principi su cui si fonda l’equilibrio del mondo.

Il primo passo riguarda il rigetto della globalizzazione, rispetto ai principi di competizione aperta e di reciproco affidamento che in Occidente hanno fatto crescere in parallelo un mercato regolato e prevedibile e la democrazia. Questa abiura avviene nel segno di un libertarismo degenerato in autoritarismo, che ha in odio lo Stato e la politica e, in nome di un’efficienza spiccia, mira a eliminare le intermediazioni e i compromessi su cui poggia la divisione del potere democratico.
Il secondo passo che Trump ha compiuto coincide con il ribaltamento del racconto della guerra Ucraina, che però finisce per sovvertire le stesse ragioni dell’Atlantismo.

Perché attribuire a Zelensky e Biden la «colpa» di aver scatenato il conflitto vuol dire sposare la narrativa putiniana, ma soprattutto gettare la Nato e la sua storia nel falò di una contrapposizione per così dire elettorale. La conseguenza è una disdetta dell’intera architettura dell’ordine mondiale fondato sulla forza del diritto e una sua sostituzione con il diritto della forza, che giustifica la divisione del mondo tra poche potenze, legittimandone le reciproche sfere di influenza.

Ma il paradigma di un potere fondato sulle sfere di influenza è, come ha ben scritto ieri Piero Fassino su queste colonne, funesto allo stesso modo per la democrazia e per la pace.
Che purtroppo sia questo l’approdo dove ci portano le parole di Trump e dei suoi più stretti sodali è un’evidenza che non è più possibile ignorare in nome del pragmatismo. Dimostra di averlo compreso appieno Ursula von der Leyen, nell’intervista concessa al quotidiano tedesco Zeit. Non vuol dire ripudiare la fratellanza con l’America. Ma vuol dire riconoscere il senso storico e globale di questo confronto che si è aperto tra Bruxelles e Washington, e di cui è parte il viaggio della premier italiana: l’obiettivo non è solo, e non è più, strappare una reciprocità commerciale, ma riportare l’America alla sua responsabilità storica.

Per riuscirci, almeno parzialmente, Giorgia Meloni non deve trasformarsi in Emma Bonino, certamente no. Può anzi sfruttare la consonanza genetica con Trump, da cui origina la sua esperienza politica, e la stabilità del suo governo. Ma deve sentire finalmente tutta intera l’appartenenza alla famiglia europea, accettandone le contraddizioni, magari provando a cambiarle con la politica. Non prendendone le distanze con distinguo identitari, di cui è fatto il repertorio del performer, non quello dello statista.

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