Zohran Mamdani, chi è l’outisder che ha vinto le primarie dem a New York: dal sostegno a Gaza ai bus gratis

  • Postato il 25 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“I newyorkesi meritano un sindaco che possono vedere, ascoltare, contestare. La città è per le strade”. Quando, venerdì scorso, Zohran Mamdani ha percorso a piedi tutta l’isola di Manhattan, da Inwood Hill a Battery Park, ha cercato di fare proprio questo. Farsi vedere, ascoltare, superare le difficoltà di una campagna elettorale che pareva destinata ad andare da nessuna parte e che ora invece rivoluziona la politica newyorkese, il partito democratico, la stessa scena politica nazionale. Il prossimo novembre New York avrà, forse, il primo sindaco musulmano. I risultati non sono ancora definitivi, lo saranno il 1° luglio quando lo spoglio delle preferenze, secondo il sistema del ranked choice voting, sarà concluso, ma le primarie dem sono state con ogni certezza vinte da questo trentatreenne, nato all’estero, socialista, che ha condotto una campagna colorata, entusiasta in una città piegata dal costo della vita, dalle enormi disparità, dall’usura dei servizi, dal peso del suo stesso mito.

È stata una citazione di Nelson Mandela la prima cosa che Mamdani ha detto, salendo sul palco allestito per il suo party elettorale a Long Island: “Sembra sempre impossibile, fino a quando non è fatto”. Era appunto data per “impossibile” la sua vittoria alle primarie dem. Il primo grande scoglio sembrava il suo ruolo di outsider, lo scarso radicamento nella nomenklatura del partito in una città dove il partito è sistema potentissimo, oligarchico, soffocante. Mamdani è nato nel 1991 a Kampala, Uganda. Suo padre è Mahmood Mamdani, ugandese di origini indiane, professore di studi postcoloniali a Columbia University. La madre, Mira Nair, è una regista indo-americana di origine punjabi. Il suo secondo nome, Kwame, gli è stato dato in onore di Kwame Nkrumah, teorico, rivoluzionario, presidente del Ghana. Dopo un intervallo in Sudafrica, a sette anni Mamdani è arrivato con la famiglia a New York. È cresciuto a Queens. Ha fatto, anche lui, studi africani. Si è appassionato di rap. È diventato cittadino USA nel 2018. È deputato dello Stato di New York dal 1991, con un pedigree politico che, dagli “Students for Justice in Palestine” all’adesione ai “Democratic Socialists of America”, è chiaramente progressista.

Il giovane politico del Queens sembrava candidato perfetto per soccombere di fronte ad Andrew Cuomo, 67 anni, erede di una delle più celebri famiglie democratiche, coperto di milioni di dollari in finanziamenti elettorali, sostenuto da grandi nomi della politica, da Bill Clinton a Mike Bloomberg (il cui gruppo, “Fix the City”, ha sostenuto Cuomo con 25 milioni di dollari), scelto dai maggiori sindacati, quelli della sanità, dei servizi, dell’ospitalità, dei ristoranti. Su Mamdani pesavano idee e posizioni che apparivano troppo radicali nella città della finanza, dei grandi immobiliaristi, del potere economico più sfacciato. Su Mamdani pesavano in particolare le sue posizioni fortemente antisraeliane e pro-Palestina. Mamdani sostiene il movimento “Boycott, Divestment and Sanctions”. Ha denunciato le azioni del governo di Benjamin Netanyahu durante la guerra a Gaza, definendole atti di genocidio. Da deputato dello Stato, ha presentato un disegno di legge, “Not on our dime!: Ending New York Funding of Israeli Settler Violence Act”, che voleva vietare donazioni a organizzazioni che sostengono i coloni israeliani. Puntuale, prevedibile, è arrivata per Mamdani l’accusa di antisemitismo, che lui ha sempre rifiutato con sdegno ma che non è comunque cosa politicamente incoraggiante per uno che vuole diventare sindaco nella seconda città ebraica al mondo, dopo Tel Aviv. Intuendo che quello potesse essere il punto vulnerabile di Mamdani, Cuomo si era messo a fare un’intensa campagna elettorale tra gli ebrei ortodossi di Borough Park e Crown Heights.

Sembrava che tutto congiurasse a fare di Mamdani il candidato di una sola primavera, destinato a essere rapidamente dimenticato, a tornare nei ranghi della politica senza glamour e senza fama. Non è andata così. Con una campagna elettrizzante, rivolta soprattutto ai più giovani, capace di mettere insieme working-class e classe media, orgogliosamente progressista, Mamdani ce l’ha fatta. Spazzando via timidezze, paure, riserve sull’apparire troppo a sinistra, il candidato dei democratici progressisti – appoggiato da Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders – ha battuto soprattutto sul tema della casa, proponendo affitti calmierati e maggiori protezioni per gli affittuari in una città terrorizzata dal problema di come e dove andare ad abitare. Ma Mamdani ha parlato di trasporti pubblici gratuiti, sanità universale per i più piccoli, aumento delle tasse per i più ricchi. Non ha avuto paura di esibire la sua fede, frequentando moschee, rispettando le festività islamiche. È riuscito, soprattutto, a modellare un messaggio ottimista, di rinascita, che ha risuonato tra le diverse comunità etniche, bianchi, asiatici, latini, neri, tra la working class operaia di Queens, le enclave più ricche dell’Upper East Side, la borghesia affluente di Cobble Hill e Park Slope, le comunità intellettuali dell’Upper West Side, la borghesia più giovane dell’East Village e di Williamsburg. Alla fine, lo ha votato anche la maggioranza degli ebrei newyorkesi (non gli ultraortodossi). Il suo alleato più prezioso è stato proprio Brad Lander, anche lui candidato, con il quale Mamdani ha stabilito un accordo di collaborazione favorita da un sistema elettorale che consente di votare, in ordine di preferenza, più di un candidato. Lander, ebreo, è arrivato al quartier generale di Mamdani tra gli hurra della folla, che scandiva “Brad! Brad! Brad!”.

“È la sua sera. È la sua vittoria”, ha commentato Cuomo, il grande sconfitto. A crollare, sotto il peso della vittoria di Mamdani, non è comunque solo Cuomo. È l’intero establishment democratico a essere messo sotto accusa dagli elettori, che nei mesi più duri del trumpismo cercano leader più giovani, più audaci, meno segnati da timidezze, connivenze, usura della vecchia politica. La vittoria di Mamdani è il segnale che il vecchio partito democratico – newyorkese e nazionale – sta tramontando e che qualcosa di nuovo – ancora non sappiamo cosa – sta nascendo. C’è comunque un altro soggetto politico che in queste ore esulta per la vittoria di Mamdani. È Eric Adams, sindaco uscente, segnato da scandali e critiche, ma che ha rifiutato di fare un passo indietro e che alle elezioni del 4 novembre si presenterà come indipendente. Adams è convinto che il suo messaggio securitario e moderato avrà alla fine la meglio, attirando il voto della classe media newyorkese terrorizzata dall’arrivo alla City Hall del musulmano progressista. La sfida è aperta. Per il momento, Mamdani si gode la vittoria e guarda avanti: “Insieme, abbiamo mostrato il potere della politica del futuro”.

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