Xi risponde a Trump con la stretta più dura di sempre su terre rare e hi-tech. Vincerà lui? Ecco da cosa dipende
- Postato il 16 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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In ogni guerra la tregua è per definizione sempre fragile. Basta un fraintendimento, un colpo partito per errore, ed ecco che si ricomincia a combattere tra raffiche di spari e accuse incrociate. La trade war tra Stati Uniti e Cina non fa eccezione. Il 9 ottobre Pechino ha annunciato nuovi controlli sulle esportazioni di terre rare, magneti, batterie e tecnologie correlate. Le restrizioni – che ampliano le precedenti introdotte ad aprile – seguono per la prima volta il principio dell’extraterritorialità, vietando ai cittadini e alle aziende cinesi operanti nel settore dei materiali critici di fornire assistenza all’estero, imponendo ai produttori stranieri l’ottenimento di licenze qualora utilizzino macchinari o componenti cinesi in altri paesi ed esigendo facciano lo stesso le aziende che intendono esportare prodotti contenenti anche piccole tracce di terre rare di origine cinese. Le autorizzazioni legate alla fabbricazione di semiconduttori verranno emesse “caso per caso”, mentre saranno completamente negate ai produttori di armi.
Sono i provvedimenti più rigorosi mai introdotti dalla Cina, che controlla il 70% dell’estrazione e il 91% della raffinazione dei 17 metalli indispensabili nei settori hi-tech, militare e delle rinnovabili. Ma la stretta di Pechino non “è stata una vera sorpresa per tutti i leader del mondo libero”, come dichiarato da Donald Trump. Piuttosto va interpretata come una risposta commisurata al pressing americano. Secondo Pechino, Washington ha violato l’intesa raggiunta il 15 settembre durante i colloqui di Madrid e che – per stessa ammissione del segretario al Tesoro Scott Bessent – consisteva nella disponibilità degli gli Stati Uniti ad “astenersi dall’adottare determinate misure future”. Peraltro, almeno ufficialmente, quello sulle terre rare non è un “export ban”, bensì un meccanismo di controllo con “impatto limitato”, “in conformità con le leggi e i regolamenti”, teso a “difendere meglio la pace mondiale e ad adempiere agli obblighi internazionali di non proliferazione”.
Legittima difesa, dunque. Adesso però, se Trump darà seguito alle minacce, la nuova stretta mette la Cina davanti al rischio concreto di tariffe extra del 100%, oltre alla possibilità di vedersi tagliare le forniture di software americani. Mossa che metterebbe in serie difficoltà l’industria hi-tech cinese, ancora dipendente dalle spedizioni straniere. Resta la speranza che The Donald e Xi Jinping si incontrino tra pochi giorni a margine dell’APEC, come annunciato dalle autorità statunitensi. Ma l’inquilino della Casa Bianca è imprevedibile e il presidente cinese farà il possibile per evitare un’umiliazione come quella riservata all’ucraino Volodymyr Zelensky. D’altro canto, se l’intenzione era quella di presentarsi al meeting con una forte leva negoziale, la Cina potrebbe essere riuscita nell’intento. Dopo la sfuriata iniziale, come in altre occasioni, Trump ha fatto marcia indietro, ribadendo di voler incontrare Xi. E, secondo gli esperti, nel breve periodo la Repubblica popolare è attrezzata meglio per resistere a un nuovo “scambio a fuoco”. Complice il dirigismo economico di Pechino, che può direzionare ingenti risorse statali dove ritiene necessario e senza dover dare conto a un’opposizione politica.
Più consapevole delle proprie debolezze, ma allo stesso tempo meglio “armato”, il gigante asiatico ha imparato molto dal primo mandato Trump: dall’inizio della nuova guerra tariffaria, le spedizioni dalla Cina verso gli Usa sono calate di circa il 27% ma al contempo sono aumentate quelle verso gli Stati dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico), Ue e Africa. Con una crescita complessiva del 7,4%, a settembre l’export si è confermato il motore dell’economia cinese. Messa al bando da The Donald nel 2019, Huawei è diventata tra le aziende nazionali più avanti nella produzione in house di chip per l’IA. Sull’altra sponda del Pacifico, invece, lo shutdown al Congresso, il tira e molla sui dazi, l’inversione a U sul blocco delle forniture di microprocessori Nvidia, e la necessità di rabbonire i produttori di soia dopo l’interruzione degli acquisti nella Repubblica popolare, stanno creando scompiglio nei mercati e dissapori tra Capitol Hill e la Casa Bianca.
In Cina, negli ultimi giorni il People Daily, megafono del partito, ha espresso forse fin troppo ottimismo sulla resilienza dell’economia cinese paragonata a una “portaerei inaffondabile e indistruttibile” davanti alle intemperie internazionali. Tra il 20 e il 23 ottobre a Pechino si terranno importanti discussioni sul nuovo piano quinquennale e la leadership comunista ha bisogno di arrivarci coesa per ultimare un nuovo modello economico in grado di rendere il paese più autosufficiente e meno esposto alle incertezze globali. “Le minacce degli Stati Uniti evidenziano anche l’inadeguatezza dei loro strumenti politici nell’affrontare problemi di loro stessa creazione, che sembrano più il frutto di un’azione impulsiva che una risposta ponderata e sistematica. L’andamento del mercato dei capitali statunitense ha dimostrato i suoi dubbi sull’efficacia di queste minacce avventate”, osserva il China Daily, aggiungendo che “dal 2018 i fatti hanno dimostrato che i dazi statunitensi sui prodotti cinesi sono imposte indirette sugli importatori e sui consumatori statunitensi”. Se gli Stati Uniti continueranno con queste pratiche, nel medio-lungo termine, la Cina “non avrà altra scelta che accelerare i suoi sforzi per rafforzare ulteriormente la propria industria e le proprie catene di approvvigionamento”.
Date ed eventi non sono casuali. Era il 10 aprile 2020, l’annus horribilis del Covid, quando presiedendo la settima riunione della Commissione Centrale per gli Affari Finanziari ed Economici, Xi ordinò di “consolidare e rafforzare le posizioni di leadership internazionale delle nostre industrie più vantaggiose, forgiare tecnologie rivoluzionarie come armi segrete per rafforzare la dipendenza della filiera industriale internazionale dalla Cina e scoraggiare le deliberate interruzioni delle forniture da parte di soggetti esterni”. Le terre rare sono diventate quell’arma. E Pechino le affila da molto tempo. Nell’ultimo decennio l’industria cinese dei preziosi metalli è stata sottoposta a una massiccia ristrutturazione con fusioni e acquisizioni, campagne anti-corruzione, e requisiti ambientali più stringenti. E’ anche aumentato il supporto statale all’esplorazione interna delle risorse minerarie. Secondo un’analisi del Financial Times, nell’ultimo anno almeno metà delle 34 province cinesi, comprese le principali regioni produttrici come lo Xinjiang, hanno annunciato nuovi sussidi o ampliato l’accesso alle attività estrattive. Per non parlare dei 57 miliardi di dollari in prestiti erogati nel trascorso ventennio per l’estrazione e la lavorazione di rame, cobalto, nichel, litio e terre rare nei paesi in via di sviluppo.
A gennaio l’Accademia cinese delle scienze sociali (CAS) ha sviluppato un nuovo metodo di estrazione basato sui campi elettrici che consente un tasso di recupero delle terre rare “senza precedenti” del 95%, riducendo i tempi di estrazione del 70% e ottenendo un risparmio energetico del 60%. Con i divieti sulla vendita all’estero di tecnologia, Pechino proietta il proprio controllo sull’industria del futuro. Se sul lungo termine la strategia si rivelerà vincente è però ancora tutto da vedere. Innanzitutto perché le recenti misure non sono indirizzate specificatamente contro gli States. L’Unione europea – che acquista dal paese asiatico circa il 50% delle sue terre rare – ha già più volte lamentato intoppi lungo la catena di approvvigionamento. E sebbene a luglio il tema abbia dominato l’ultima visita della presidente della Commissione Ursula von der Leyen in Cina, l’emissione di licenze è proseguita lentamente. Ora il nodo dei metalli si aggiunge alla sovrapproduzione industriale nei dossier che uniscono Bruxelles e Washington contro Pechino. Senza contare che uno dei comparti più colpiti dalle limitazioni riguarda le rinnovabili, diventate uno strumento di “soft power” oltre che nuovo traino delle esportazioni cinesi verso il Sud del mondo.
Inoltre, come tutte le risorse anche le terre rare non sono infinite. A lanciare l’allarme è uno studio pubblicato dal CAS sulla rivista Chinese Rare Earths, secondo il quale il predominio della Cina sulle forniture globali potrebbe prima o poi esaurirsi. La quota cinese, attualmente al 62%, rischia di scendere al 28% entro il 2035 e al 23% nel 2040, a causa della scoperta di nuovi giacimenti in Africa, Sud America e Australia, dove le aziende occidentali stanno consolidando la propria presenza. La Repubblica popolare potrebbe così perdere la sua posizione dominante: con l’avvio di progetti minerari in Groenlandia e Sud America a rischio è anche il forte controllo sui metalli pesanti, al momento concentrati nei giacimenti di argilla delle province meridionali.
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