Walter Zenga e l’intervista alla Gazzetta: “Dalle partitelle in cortile al giro del mondo come allenatore. Ora mi piacerebbe tornare a casa, all’Inter”
- Postato il 28 luglio 2025
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Intervistato da Sebastiano Vernazza della Gazzetta dello Sport, l’ex portiere dell’Inter Walter Zenga ha toccato un po’ tutte le fasi della sua carriera
Tutto iniziò, racconta, a viale Ungheria, la periferia di Milano. “In viale Ungheria ritorno spesso. Ci abita mio fratello Alberto e per riconoscenza ho concesso l’uso del mio nome alla Macallesi, la mia prima squadra. Per me non era la periferia, ma il centro del mondo, con viale Forlanini e l’Ortomercato come confini. Il mio regno era il cortile del civico 21 barra 4. La geografia dei cortili era importante, non è che uno potesse entrare in uno spazio non suo. Cose da ragazzini. Ci si trovava tutti all’oratorio”.
“Mio padre era juventino – racconta – ma mi portava a vedere l’Inter, non so perché, e sono diventato interista per ripicca nei suoi confronti. La mia prima volta a San Siro è stata per un Inter-Brescia e io, più che dall’Inter, venni rapito dall’enorme V sulla maglia nera del portiere bresciano, Luigi Brotto (scomparso nel 2024, ndr). Mio papà era stato il portiere della Pro Lissone, poi si ruppe un ginocchio e chiuse la carriera. Nella mia prima partita da allenatore del Brera, nel 2000, affrontai la Pro Lissone: una di quelle coincidenze che ti fanno pensare a un segno”.
Il suo primo idolo da tifoso interista? “Silvano Martina, l’ex portiere. Ha giocato nell’Inter un’unica partita di Serie A, contro il Palermo nel 1973, e io c’ero. Era il terzo portiere, dopo Lido Vieri e Bordon. Qualche giorno dopo venne al campo della Richard Ginori, dove ci allenavamo noi delle giovanili, e mi esaltai”.
La prima tappa a Salerno. “E prima lezione, un passaggio formativo fondamentale. Campionato di C1. Giochiamo contro la Paganese sul neutro di Avellino, paro un rigore nonostante un dito lussato, vinciamo. Passo la settimana a sentirmi figo e invincibile. La domenica dopo, contro il Pisa capolista, prendo due gol sui primi due tiri ed esco in lacrime. Lì ho capito che ciò che conta non è quello che hai fatto, ma quello che fai e che farai”. Poi il Savona. “Ero militare, facevo avanti e indietro con il Car (Centro addestramento reclute, ndr) di Bologna. Nel Savona, in C2, ho come compagno Pierino Prati, un mito, l’ala sinistra del Milan campione d’Europa nel 1969, in finale contro l’Ajax. Schema unico: palla lunga per Prati e ci pensa lui. Pierino sa parlare ai giovani: non dice mai ‘che c… fai’, ma ‘se fai così, è meglio’”. Terza tappa, la Sambenedettese. “Perché lì ho avuto Nedo Sonetti, l’allenatore che mi ha svezzato, e perché ho vissuto l’Heysel italiano. Nessuno lo ricorda, lo faccio io qui. È il 7 giugno 1981, Samb-Matera, la partita della nostra promozione in Serie B, allo stadio Fratelli Ballarin di San Benedetto del Tronto. C’è una foto in cui sono girato verso la nostra curva, che sta prendendo fuoco. Nel rogo (l’incendio divampò dalle strisce di carta tagliate per festeggiare, ndr) muoiono due ragazze e ci sono tanti ustionati gravi, ma noi non lo sappiamo e giochiamo lo stesso, tra le sirene dell’ambulanze e il lavoro dei pompieri. Pazzesco, però le comunicazioni sono lente, le notizie imprecise. Almeno non festeggiamo, perché qualcosa si viene a sapere”. Sonetti? “Settembre 1981, prima giornata di Serie B, Samb-Lazio. Il giovedì, come sempre, la mia fidanzata viene da Milano e come sempre starà da me fino alla domenica. Il giovedì Sonetti mi fa: ‘Walter, la tua ragazza oggi non arriva, vero? Abbiamo una partita troppo importante’. Io: ‘Ma no, mister, si figuri’. Lei era già sul treno. Sonetti però fiuta qualcosa e la sera si presenta in ispezione nella palazzina in cui abito, dietro la tribuna dello stadio. Io nascondo lei sul terrazzino di un ufficio, assieme alla sua valigia’. Sembra la scena di una commedia sexy all’italiana, con Edwige Fenech e Renzo Montagnani. “Sonetti, un toscanaccio, entra in casa e mi fa: ‘Dai retta a me, Walter. Ci sono due cose su cui non mi freghi, il calcio e le donne e qui c’è odore di donna’. Ne abbiamo riso per anni. Sonetti è stato un grande allenatore, alla Samb facevamo cose che oggi vengono spacciate per nuove, tipo buttar fuori la palla avanti in attacco, per pressare gli avversari sulla rimessa. Sonetti è stato un futurista: mi stupisce che non abbia mai allenato un grande club”.
Poi il ritorno all’Inter, fino al 1994. Il momento più bello? “L’ultima partita, il ritorno della finale di Coppa Uefa contro il Salisburgo. So che andrò via, anche se la dirigenza non mi ha comunicato nulla. Lo so perché Roberto Mancini mi ha detto che Pagliuca lascerà la Samp per passare all’Inter. E so che il nuovo allenatore, Ottavio Bianchi, non mi vuole. San Siro è strapieno, io paro tutto, vinciamo la partita e il trofeo. È l’ultima delle mie 473 presenze nell’Inter. Al giornalista di Canale 5 che mi chiede se è così, se è vero che me andrò, rispondo a caldo con un ‘chissenefrega’. Con la Coppa Uefa saldo i miei conti, è l’addio perfetto”. La parata più bella nell’Inter? “Contro il Torino a San Siro, nel settembre del 1983, l’anno di Gigi Radice allenatore nerazzurro. Volo a deviare un tiro di Domenico Caso, con il pallone diretto al sette. E poi gli interventi contro il Salisburgo, lì c’è tutto il mio repertorio”. (…)
Capitolo Nazionale. In azzurro, Zenga due volte semifinalista, all’Europeo del 1988 e al Mondiale 1990. Tasto dolente, l’uscita sbagliata che a Napoli, nel 1990, costò l’1-1 contro l’Argentina. “Il falso storico è che noi abbiamo perso il Mondiale per quell’episodio. Lo dico ai leoni di tastiera che mi ammorbano con questa cosa. Mancavano più di 20 minuti al 90’ e poi ci sono stati i supplementari e i rigori. Come quelli che incolpano Robi Baggio per l’errore dal dischetto a Usa ’94. E poi non sbaglia soltanto chi non fa le cose. A Italia ’90 abbiamo disputato un Mondiale quasi perfetto, sei vittorie e un pareggio nei 120 minuti, eppure siamo arrivati terzi”. Le va di analizzare quell’uscita? Lancio di Maradona, Zenga a vuoto, gol di Caniggia. “In quella situazione, il portiere che esce è fregato per nove volte su dieci. Perché sono uscito? Non lo so, sono attimi e ho deciso così. Se non puoi anticipare l’attaccante, devi restare in porta e tentare la parata. Io ho fatto la scelta più scomoda, in un centesimo di secondo, e l’ho pagata. Alle semifinali del 1988 e del 1990 aggiungo quella del 1984 ai Giochi di Los Angeles e le finali dell’Europeo Under 21 contro la Spagna, tutti risultati che oggi ci sogniamo. La vita non è fatta soltanto di trofei alzati al cielo. Paolo Maldini ha detto di aver perso più finali di quante ne abbia vinte”.
Poi il giro del mondo da allenatore. “Ho iniziato in America, a Boston, allenatore-giocatore, con Nanu Galderisi come vice. Sono andato in Romania al Progresul, un piccolo club. Abbiamo fatto la Coppa Uefa e lì mi è successa una cosa particolare. Un’ora e mezza prima della partita contro il Psg a Bucarest, arriva la notizia che il padre di Dani Prodan, un nostro giocatore, è morto in un incidente stradale sulla strada per lo stadio. Sono momenti che devi gestire da solo, nessuno ti insegna come”.
E poi? “Sono stato in Turchia, ma non a Istanbul. A Gaziantep, vicino al confine con la Siria. Ho vinto il campionato con lo Steaua Bucarest, in Romania, e con la Stella Rossa in Serbia. Ho fatto cinque mesi al Wolverhampton, in Championship, la Serie B inglese, poco prima che si palesasse Jorge Mendes con i suoi giocatori portoghesi forti, e lì ho capito che il calcio in Inghilterra sta su un’altra galassia. Sono andato in Arabia, all’Al Nassr, oggi la squadra di Ronaldo, ma l’ho fatto nel 2010, quando il calcio saudita non era quello di oggi. Ho sempre firmato contratti annuali, non ho mai voluto la comfort zone di un pluriennale. L’ho accettata soltanto in un’occasione, al Palermo”.
In Italia? “Come presidenti ho avuto Ferrero alla Samp e Tacopina al Venezia, non mi sono negato nulla. Esperienze bellissime in Sicilia, tra Catania e Palermo. Catania è stata la tappa più bella, ci siamo salvati a sei giornate dalla fine. A Palermo avevo Cavani, Pastore, Balzaretti. Lì ho lanciato Sirigu portiere e c’era Miccoli capitano. Fabrizio è stato messo in mezzo in una brutta storia, ma ha pagato i suoi conti e per me resta una persona di cuore. Sono atterrato a Cagliari poco prima del lockdown, abbiamo giocato 13 partite in 40 giorni tra giugno e luglio e ci siamo salvati. A Crotone no, ma giocavamo un buon calcio. Quasi mai sono stato esonerato per i risultati. Spesso mi hanno cacciato con la squadra in posizione di sicurezza. Nel 2023 sono stato direttore tecnico in Indonesia, al Persita Tangerang. Gli indonesiani sono meravigliosi, accoglienti e educati. Ti spalancano la porta di casa, nessuno delinque. L’unico posto in cui si inferociscono è lo stadio (risata, ndr)”.
L’Inter non l’ha mai cercata? “Una volta, non mi ricordo se fosse il momento in cui presero Stramaccioni o Mazzarri”. Le dispiace? “Non vado a San Siro da un anno e mezzo, ma se ci tornassi, finirei come sempre circondato dai nostri tifosi. Per loro, è come se avessi smesso di giocare due giorni fa e tanto mi basta. Gli interisti sono la mia gente. Come a tutti, mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe ritornare a casa. Diciamo che da qui a cent’anni c’è tempo, ma no, non ci spero più perché non vedo una posizione per me. Sebbene, se volessero, un incarico potrebbero ricavarlo”. Come si vive a Dubai? Lei abita lì dal 2010. “Bene. Vivo sei mesi a Dubai e sei in Italia. A Dubai studiano i miei due figli più piccoli, che però si sono fatti grandicelli, Walter junior – è nato a Dubai e l’ho chiamato così perché in futuro ci dovrà essere lo stesso un Walter Zenga a rompere le scatole – e Samira. Non sto a Dubai per le tasse, ma per la sicurezza: puoi lasciare aperta la porta di casa e le chiavi nel cruscotto dell’auto, puoi dimenticarti il portafogli sul tavolo del ristorante e ritrovarlo lì, intonso, dopo ore. Se Samira esce di sera, zero preoccupazioni”.
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