Verità a metà prezzo
- Postato il 9 giugno 2025
- Attualità
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
C’è una linea sottile, quasi invisibile, che separa la giustizia dalla convenienza. È una linea che passa dalle bocche spalancate dei collaboratori di giustizia, da quei racconti che hanno il potere di scardinare imperi criminali, ma anche di riscrivere destini individuali. I pentiti di mafia sono l’arma più potente che lo Stato abbia mai avuto contro Cosa Nostra, la ‘ndrangheta, la camorra. Eppure, dietro ogni confessione, dietro ogni nome fatto, dietro ogni verbale, si cela una storia più profonda, una domanda mai risolta: quanto costa davvero la verità?
La figura del pentito è, da sempre, una crepa nel pensiero assolutista della giustizia. Perché rompe lo schema del male e del bene, del colpevole e dell’innocente. Il collaboratore è, prima di tutto, un uomo che ha fatto parte del crimine, che ha ucciso, tradito, spesso ordinato omicidi efferati. Ma è anche colui che, ad un certo punto, decide di rompere il patto con il silenzio e di consegnarsi, parola dopo parola, allo Stato. Non per fede repubblicana, non sempre per rimorso, spesso per sopravvivenza. Ma il risultato è lo stesso: la giustizia ottiene armi, e il sistema mafioso si indebolisce.
Il primo a rompere questo schema fu Tommaso Buscetta. Arrestato in Brasile, estradato in Italia, è lui che, nel 1984, racconta a Giovanni Falcone l’organizzazione verticale di Cosa Nostra. Prima di lui, la mafia era considerata un insieme di cosche indipendenti. Dopo di lui, diventa una struttura piramidale, con una “Cupola” che decide, comanda, giudica. Buscetta parla non solo per vendetta – i suoi figli e il fratello erano stati ammazzati – ma anche perché capisce che l’organizzazione che aveva servito era diventata mostruosa, irrazionale. Il suo tradimento è una frattura epocale: è il primo vero colpo alla “onorabilità” mafiosa. Nessuno prima aveva osato raccontare il cuore della bestia.
Il pentimento di Buscetta non è religioso, ma civile. Lui stesso rifiuta la parola “pentito”, preferisce “testimone”. E in effetti, quello che fa è testimoniare una realtà che lo Stato, fino a quel momento, aveva solo intuito. Le sue parole costruiscono le fondamenta del maxiprocesso di Palermo. Senza di lui, senza Contorno, senza Calderone, le stragi degli anni ’80 e ’90 sarebbero rimaste un enigma. E Falcone, in quei giorni, lo aveva capito bene: “Abbiamo bisogno di conoscere i meccanismi, non solo i nomi.”
Eppure, la collaborazione non è mai un atto puro. È un compromesso. Lo Stato offre qualcosa in cambio: protezione, sconti di pena, una nuova identità. E qui nasce il primo conflitto etico. Può chi ha ucciso, chi ha sciolto nell’acido un bambino, chi ha piazzato bombe sotto un’autostrada, essere reintegrato nella società? La legge dice sì, se la collaborazione è utile, decisiva, credibile. E così, chi parla abbastanza, chi rivela abbastanza, chi collabora abbastanza, può uscire. Può rifarsi una vita. Può persino essere dimenticato.
La lista dei collaboratori di giustizia è lunga e piena di zone grigie. Ci sono i “grandi pentiti”, quelli che hanno decapitato le cupole. E ci sono quelli minori, gregari, picciotti, uomini d’onore che hanno deciso di tradire per salvarsi la pelle. Molti hanno fornito informazioni preziose. Altri, forse, hanno solo approfittato di un sistema.
Giovanni Brusca è un caso simbolico. L’uomo che ha premuto il telecomando di Capaci, che ha ordinato centinaia di omicidi, che ha fatto sequestrare, torturare e uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo. Dopo il suo arresto nel 1996, ha iniziato a collaborare. Ha raccontato, ha confermato, ha fatto nomi. La sua collaborazione è stata definita “utile”. Ma può davvero la sua voce riscattare le sue azioni? La legge ha risposto di sì: nel 2021 è tornato libero, dopo 25 anni di carcere. Per alcuni è un successo dello Stato. Per altri, una ferita riaperta.
La verità, quando viene da chi ha vissuto nel buio, è sempre a metà prezzo. Preziosa, ma avvelenata. Senza quei racconti, oggi non conosceremmo le logiche di tante stragi. Ma conosceremmo ancora più verità se chi ha parlato fosse rimasto dentro, a espiare. Perché c’è un prezzo che lo Stato può pagare. E c’è un prezzo che le vittime non possono dividere.
I collaboratori di giustizia hanno cambiato il volto della lotta alla mafia. Hanno permesso di colpire clan che sembravano invincibili. Hanno aperto processi storici. Ma hanno anche aperto il dibattito su cosa sia la giustizia. Non solo sul piano legale, ma su quello morale. Se la pena non è proporzionata al crimine, resta giustizia? Se la verità diventa moneta di scambio, resta verità?
Lo Stato ha bisogno di queste voci. Senza di loro, i processi si svuoterebbero. Ma ha anche bisogno di uno sguardo più profondo, capace di tenere insieme la forza della legge e la fragilità del dolore. Perché non basta punire, non basta sapere. Bisogna anche **riconciliare**, risanare, ascoltare il silenzio delle vittime prima del racconto del carnefice.
Forse il futuro della legge sui pentiti passerà da qui. Dalla capacità di riconoscere il valore della collaborazione senza dimenticare il peso delle azioni. Dal coraggio di guardare in faccia chi ha tradito la mafia, ma anche la vita. E da una domanda che resta sospesa, inquieta, irrisolta: può davvero la voce del colpevole guarire le ferite dell’innocente?
Se la risposta è sì, allora la legge deve farsi più umana. Se è no, allora dobbiamo avere il coraggio di cambiare rotta. Di non accontentarci della verità parziale. Di non vendere il diritto alla speranza per un fascicolo chiuso.
Perché il rischio, altrimenti, è che la verità ci salvi, ma solo a metà. E che la giustizia diventi una sentenza con la voce rotta.
la legge sui pentiti serve ancora alla giustizia o è diventata una nuova trattativa?
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