Venezia 2025, “Ghost Elephants” di Herzog si ammoscia come un palloncino bucato: la recensione

  • Postato il 28 agosto 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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A Werner Herzog oramai riesce un film su dieci. Non emerge dalla sbiadita statistica Ghost elephants, presentato Fuori Concorso a Venezia 2025, a corollario di un Leone d’Oro alla carriera che rattoppa pubblicamente una voragine artistica ormai inarrestabile. Come per un Coppola o uno Scorsese la fase del “maestro” è amaramente sepolta per dare spazio a quella del manierismo. L’82enne regista tedesco riattizza il suo filone della magia poetico antropologica, una versione del mockumentary che deriva dai suoi lontani documentari estremi anni settanta, che rimanda di continuo ad un suo capolavoro come Grizzly Man (2005). Là dove il rapporto estremo tra uomo e natura, declinato spesso in uomo animale, riserva una lotta epica estatica alla Moby Dick, Herzog ha saputo ritagliarsi angoli di stupore e meraviglia, di scaltra affabulazione rispetto al frammento impossibile della visione.

Qui prodotto direttamente dal patinato mondo National Geographic, Herzog si spinge nell’esplorazione di una caccia grossa su un florido altopiano dell’Angola dove il biologo Steve Boyes tenta di ritrovare tracce dei cosiddetti elefanti fantasma: parenti recenti di antico lignaggio genetico anche solo dell’immenso esemplare da 11 tonnellate, tal Henry, conservato nel museo Smithsonian dopo essere stato barbaramente trucidato negli anni cinquanta da un assassino di nome Fenykovi. La voce narrante e la presenza invisibile di Herzog introducono i protagonisti già pronti per l’impresa: tre studiosi “bianchi” e tre tracciatori boscimani depositari della cultura San. Così se tra trance degli indigeni, disamina degli elementi naturali (la ricerca della bacca velenosa) e una mirabile sequenza di riporto di una danza acquatica di elefanti (vecchio Werner più furbo di una lince), la spedizione ha inizio, Ghost elephants si ammoscia come un palloncino bucato. Non tanto per l’invadente e riconoscibile commento musicale sacrale di Ernst Reijseger, habituée del cinema di Herzog. E nemmeno per il ricorrente meccanismo della suspense da abile mestierante del settore, ovvero quello dell’attesa di un frammento video rarissimo che prima o poi arriverà (meglio che l’elefante appaia all’occhio ipertecnologico o che rimanga sogno e apparizione mitologica?).

Il problema macroscopico di Ghost Elephants è la sua evanescente impotenza strutturale, quello di un cinema bolso col pilota automatico, dell’atto creativo con quello che si può e si trova nonostante tutto. L’ultimo Herzog manca così di magia e di sincerità, di potenza visiva e di spirito del tempo (una impietosa googolata mostra decine di riprese degli elefanti fantasma). Insomma, non possiede l’inarrivabile sequenza modello di Timothy Treadwell inseguito pacificamente da un orso come in Grizzly man. Non serve nemmeno riesumare una sequenza di Africa addio (1966), quella della reale sadica inguardabile uccisione di alcuni elefanti, ulteriore chiodo nella bara dell’inconcludenza herzoghiana perché Jacopetti, pur nella sua volgare disumanità, stava facendo del cinema. Herzog invece si è ridotto al ghirigori di se stesso.

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Il Fatto Quotidiano

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