Usa, l’opposizione a Trump riparte dalla People’s March: progressisti in strada sabato contro il tycoon. Ma il suo consenso è record

  • Postato il 18 gennaio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Il 21 gennaio 2017 5 milioni di persone marciarono in tutto il mondo contro Donald Trump. Duecentomila solo a Washington. L’evento, organizzato da diversi di gruppi femminili, venne ribattezzato Women’s March. Non furono ovviamente soltanto le donne a manifestare contro il tycoon che aveva giurato da presidente il giorno prima. La connotazione femminile e femminista sottolineava infatti uno dei suoi aspetti più discussi: il maschilismo, la prepotenza patriarcale. Trump era l’uomo che aveva detto che le donne “vanno prese per quella parte lì”. Trump era il miliardario che esibiva mogli e amanti come trofei. Trump era il convertito repubblicano che prometteva di mettere l’aborto fuori legge. Otto anni dopo siamo daccapo. Trump è risorto dalle sue ceneri politiche e giudiziarie. Sta per giurare da presidente. E sabato, a Washington e in tutti gli Stati Uniti, si torna a marciare contro di lui. Solo che questa volta la Women’s March è diventata la People’s March.

Il cambio di nome è giustificato con la volontà di essere “più inclusivi” e magari, fanno notare i maligni, nascondere lo scontro duro che c’è stato in questi anni tra una parte del movimento femminista e le persone transgender. Le redini dell’organizzazione restano in mano ai gruppi femminili: Planned Parenthood, National Women’s Law Center, Abortion Access Now. Ma la mappa della capitale sarà domani la rappresentazione di quel “popolo” d’America che, come dice il sito web dell’evento, si oppone “a un’amministrazione autoritaria fatta di miliardari, artisti della truffa, suprematisti bianchi”. Pacifisti, ambientalisti, associazioni pro-immigrati si riuniranno a Farragut Square. A Franklyn Park si daranno appuntamento donne e militanti LGBTQ+. Il concentramento per i gruppi più legati al Partito Democratico sarà a McPherson Square. Tutti confluiranno poi in un unico fiume di gente, nelle speranze degli organizzatori il più largo e tumultuoso possibile. Nelle stesse ore, altre marce in decine di città americane faranno vibrare le corde più appassionate dello scontento americano.

La politica è anche prova di forza. E quello che la People’s March deve fare è mostrare all’America la forza dell’opposizione a Trump. Non è impresa facile, soprattutto se si prende come pietra di paragone la Women’s March del 2017. La sorpresa, la disperazione, l’indignazione che i progressisti accumularono per giorni, dopo la vittoria di Trump, esplosero con una potenza che si era raramente vista per le strade d’America. Il 2025 non è però il 2017. Lo scorso 5 novembre Trump non ha vinto. Ha trionfato. È svanito anche l’effetto sorpresa. Gli americani lo conoscono bene. Conoscono i suoi programmi. Ancora: l’America è già sopravvissuta al suo primo mandato. Perché non dovrebbe sopravvivere al secondo? Sono le ragioni che rendono il 2025 così diverso dal 2017 e sono le considerazioni che potrebbero spingere molti a restare a casa. A quel punto, la marcia nata per mostrare all’America la forza dell’opposizione a Trump, si risolverebbe nella prova che l’America in fondo ama Trump.

Sullo sfondo di ansie, manovre, preparativi di questi giorni a Washington, c’è però la vera questione che turba l’opposizione a Trump. Che tipo di resistenza fare nei prossimi quattro anni? Per molti, marciare non è la soluzione esclusiva oggi, come non lo fu allora. Negli anni in cui il popolo progressista urlava slogan, si inorgogliva per le spillette anti-Maga, esibiva la propria indignazione, Trump nominava tre giudici alla Corte Suprema, conquistava il Partito Repubblicano, tesseva strategie giudiziarie, preparava il suo prorompente ritorno. Questa volta rischia di essere ancora peggio. Trump è più forte. Più sicuro di sé. Promette deportazioni, trivellazioni, attacchi a giornalisti e oppositori. Ecco perché spillette, marce e slogan potrebbero non bastare. Anzi, è certo che non basteranno. Proprio in vista del 20 gennaio si sono quindi elaborate “strategie di resistenza” alternative. Si punta sui tribunali. È probabile che già i primi ordini esecutivi di Trump, quelli approvati nel primo giorno della sua presidenza, saranno accusati di incostituzionalità e portati in tribunale. Democracy Forward, un gruppo creato nel 2017, ha messo insieme un gruppo di 800 legali, divisi per aree – immigrazione, ambiente, diritti omosessuali e trans, media – pronti a intervenire e bloccare con cause giudiziarie l’attuazione degli ordini di Trump.

Un ruolo significativo viene anche assegnato ai 23 governatori degli Stati democratici. Alcuni di questi, guidati da JB Pritzker dell’Illinois, si sono raccolti nei Governors Safeguarding Democracy, gruppo che intende coordinare modi e strumenti con cui gli Stati democratici risponderanno all’ondata conservatrice. Del gruppo fa parte il governatore della California, Gavin Newsom, ora alle prese con gli incendi di Los Angeles ma che sin dalla vittoria trumpiana del 5 novembre si è dimostrato tra i più attivi nel guidare l’opposizione. Non tutti i governatori sono convinti della linea dura. Phil Murphy del New Jersey è per esempio tra coloro che ritengono necessarie alcune forme di collaborazione con Trump. È comunque chiaro, tra i Dem, che i poteri estesi che il sistema americano concede agli Stati debbano essere usati nella “resistenza”. Come è altrettanto chiaro che “resistere” non basta, che i progressisti non possono limitarsi a difendere lo status quo, ma devono elaborare proposte in tema di economia, lavoro, educazione, sanità, energia. È una marcia lunga, tormentata, incerta quella che può (forse) portare l’America fuori da Donald Trump. Ed è una marcia che partirà domani, sotto il cielo grigio e freddo dell’inverno di Washington.

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