Una mostra in Germania mette in dialogo Marina Abramović e il suo metodo con Joseph Beuys
- Postato il 2 agosto 2025
- Arti Visive
- Di Artribune
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Il castello appare all’improvviso imponente e maestoso circondato da uno stagno di ninfee. Nell’acqua scura s’intravvede un corpo avvolto in una rete verde. È un’Ofelia-maschio inerte, l’artista turco Eşref Yıldırım, uscito per la prima volta dal suo Paese, che si relaziona con gli animali e i vegetali per diventare parte di loro: anatra, mosca, fior di loto, uccello.
L’eredità politica di Joseph Beuys
Questo è ciò che succede allo Schloss Moyland Museum, nell’area di Kleve in Germania, un castello d’origine medievale diventato nel 1997 Archivio e sede della Collezione delle opere di Joseph Beuys dei fratelli Hans e Franz Joseph van der Grinten, amici e sostenitori dell’artista tedesco. Marina Abramović & MAI (Marina Abramović Institute) in Dialogue with Joseph Beuys è il titolo di una mostra trasversale – curata da Serge le Borgne, Billy Zhao, Antje-Britt Mählmann – che mette in relazione i due maestri con tredici artisti provenienti dal MAI, la piattaforma nomade creata da Abramović nel 2007 per preservare la performance e trasmettere l’insegnamento dell’Abramović Method. Il filo conduttore dell’esposizione è l’eredità politica, spirituale, economica, ecologica di Beuys. I performer, che sono stati in residenza a Kleve lo scorso marzo, hanno avuto accesso agli archivi, analizzato e smembrato il suo pensiero per farlo proprio e moltiplicarlo.












Tra Marina Abramović e Joseph Beuys
Nella prima parte della mostra sono presentati, tra il resto, due video: la storica azione di Beuys: “Come spiegare la pittura a una lepre morta” (1965) e il reenacting di Abramović del 2005, quando la performer serba rielaborò al Guggenheim di New York 7 Easy Pieces, le sette performance storiche di altrettanti artisti. Il cortocircuito inizia con Sandra Johnston, capelli rasati, voce bassa, occhi penetranti. Per otto ore è di fronte a delle lavagne sulle quali traccia segni, ghirigori, linee, lettere illeggibili che diventano paesaggi magnetici e misteriosi presagi. Martin Toloku è al centro di una stanza. Sulle pareti attorno a lui ci sono sette porte grigie legate con spesse funi al suo corpo. Qualsiasi movimento egli faccia si aprono e si chiudono vicendevolmente, sbattendo e provocando violenti rumori. È il risultato dell’incrocio tra Beuys, la prigionia dell’individuo e i rituali delle tribù Ewe del Ghana. Ogni artista che partecipa performando sino al 10 agosto – (dopo di che rimarranno i video e le installazioni sino al 21 settembre) – è il capitolo di un libro, è un frammento di Beuys, rappresenta la riattivazione della collezione.
Lavoro ed etica secondo Joseph Beuys
Cristiana Cott Negoescu ha creato un ambiente industriale, immerso in una luce rossa, con un iPad che trasmette un monologo di Beuys sul lavoro e sull’etica. Intanto, nella ripetizione di ritmi alienanti, l’artista attiva un processo di produzione e distruzione di pillole zuccherine. Non può fare pause, a meno che venga estratto il numero da lei annunciato prima di azionare una macchina del lotto appositamente installata. Con Francesco Marzano il pubblico è invitato a respirare vicino a dei microfoni. Il soffio collettivo si traduce in un suono catartico che somiglia al vento e alle onde. Isaac Chong Wai, in una stanza tutta bianca, sfida la gravità. Sdraiato a terra, con i piedi sulla parete, cammina lentamente in verticale come fosse un insetto. Tutti gli artisti, formati da Abramović, portano all’estremo la loro resistenza. Il Trio Luisa Sancho Escanero, Evan Macrae Williams e Yan Jun Chin trasforma in danza i disegni di Beuys mentre la greca Virginia Mastrogiannaki legge d’un fiato i trattati fondativi dell’Unione Europea rimuovendone i termini economici.
Gli artisti in mostra a Kleve
Il video di Maria Stamenkovic Herranz testimonia un viaggio da Novi Sad alla Germania, a piedi e in treno. Michelle Samba preleva il proprio sangue e timbra ogni mattina i fogli scartati dal museo come fossero documenti burocratici di un ufficio surreale. L’ultima micro-azione politica è di Rubiane Maia che ha seminato riso africano in una stanza piena di terra e cime di navi. La performance è compiuta dal vegetale che crescendo assorbe il trauma post-coloniale e la violenza, generando una possibile guarigione della relazione tra umani e più-che-umani. La stessa relazione cercata da Eşref Yıldırım-Ofelia nello stagno.
Manuela Gandini
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L’articolo "Una mostra in Germania mette in dialogo Marina Abramović e il suo metodo con Joseph Beuys " è apparso per la prima volta su Artribune®.