Una mosca chiamata Billy Gilmour

  • Postato il 15 aprile 2025
  • Di Il Foglio
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Una mosca chiamata Billy Gilmour

Al suo arrivo a Guildford, lì dove al Surrey Sports Park si allenano le giovanili del Chelsea, Jody Morris, l’allenatore dell’Under 18 dei Blues, lo scrutò da capo a piedi, poi confidò al suo vice il suo scetticismo. Cosa vuoi che ce ne facciamo di un moscerino del genere? Billy Gilmour aveva sedici anni e ne dimostrava una dozzina. Aveva la faccia da bambino, le gambe esili e assomigliava più a un giunco che a un ragazzo. Fu quando lo guardò negli occhi e vide in quello sguardo una determinazione adulta, quasi sfrontata, che decise di non incavolarsi con il responsabile del settore giovanile e dare una possibilità al ragazzo. Andò dal preparatore atletico. Ti affido il moscerino, fallo diventare almeno una mosca. Perché così com’è non resiste due minuti in campo

 

Due mesi e mezzo dopo il preparatore atletico disse a Jody Morris che il ragazzo era pronto. Era diventato una mosca.

 

L’allenatore lo fece scendere in campo per la prima volta il 9 settembre del 2017 contro l’Arsenal Under 18. Titolare, all’ala destra. Fece un figurone. Segnò, dribblò, mandò in crisi la difesa dei giovani gunners. Jody Morris si rese conto però di una cosa: non era quello il suo ruolo, non era fatto per giocare all’ala. Lo spostò qua e là nel campo sino a capire che quello scricciolo scozzese era un centrocampista, un signor centrocampista. Perché aveva piedi buoni, aveva corsa, sapeva difendere e attaccare e, nonostante il fisico apparentemente gracile, difficilmente subiva la fisicità anche di giocatori che gli davano venti centimetri in altezza e venti chilogrammi di muscoli. 

 

Soprattutto aveva una determinazione assurda, incrollabile. Al Guardian disse: "Se qualcuno è migliore di me, voglio essere migliore di lui. Ho sempre avuto una mentalità vincente e odio perdere, quindi quando vedo qualcuno fare meglio, devo eguagliarlo". Non erano solo parole, non era solo la dichiarazione di un ragazzino ambizioso. Era una dichiarazione di intenti, un’esternazione sincera. 

 

Non è cresciuto tanto in questi otto anni Billy Gilmour. Il suo fisico si è ingrossato, le sue gambe non sono più così esili il suo busto ha aumentato i muscoli. La sua altezza però si è fermata al metro e settanta. In pochi però se ne accorgono. Col pallone ci sa fare, ma non lo aspetta, se lo va a prendere. Fa a spallate con marcantoni e non cade. Prende calci e resta in piedi, spesso li dà: agonismo senza cattiveria. 

 

Quando in estate è arrivato a Napoli nessuno gli dava due soldi. Antonio Conte però sapeva cosa poteva dare alla squadra, l’aveva visto giocare in Premier League e non aveva dubbi sul suo talento. Nonostante un inizio difficile, un ambientamento ben più complesso di quello, immediato e travolgente, dell’altro scozzese arrivato in agosto, Scott McTominay. Una vita al Manchester United e cinque anni in più possono fare una bella differenza. 

 

Antonio Conte ha atteso Billy Gilmour, sapeva che una mosca come lui poteva fargli comodo sia come alternativa a Stanislav Lobotka, il regista del Napoli, sia accanto a lui. Perché Billy Gilmour è sì simile allo slovacco, ma, proprio come lo slovacco, sa fare tante cose, quasi tutte bene, riversando in campo tutta l’energia, la voglia e l’attenzione che ha in corpo.  

 

Queste qualità le ha sempre avute, al Brighton, grazie a Roberto De Zerbi, ha imparato a sfruttarle, ha capito di dover essere più di un ordinatore del gioco quando aveva la palla al piede, che non c’è ordine senza disordine, che non c’è costruzione senza distruzione. Soprattutto che apparire e farsi bello non serve a niente, non quanto, almeno, lavorare per una causa superiore alla propria, quella della squadra.

    

    

Anche quest'anno c'è Olive, la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Piccoli ritratti, non denocciolati, da leggere all'aperitivo. Qui potete leggere tutti gli altri ritratti.

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Il Foglio

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