Una buona notizia
- Postato il 23 luglio 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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“C’è una buona notizia: ora sappiamo con certezza che gli esseri umani sono stati progettati per affrontare con successo difficoltà e stress. Discendiamo da gente che è sopravvissuta a un’infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi naturali. Noi siamo costruiti per convivere quotidianamente con lo stress. È la resilienza la norma negli esseri umani, non la fragilità”. È quanto afferma Pietro Trabucchi nel suo scritto “Perseverare è umano” utilizzando un termine che, poco usato fino a qualche anno fa, sembra oggi essere imprescindibile e di gran moda tanto da meritarsi un ruolo da protagonista anche nei programmi politici nazionali e internazionali. Personalmente sono piuttosto prevenuto, e capisco bene che non posso ritenerlo un merito in assoluto, nei confronti di tutto ciò che è di moda, che sia il film del momento, la canzone epocale, il romanzo da best seller o il capo di abbigliamento che non può mancare nel tuo armadio, anche in questo caso, come per tutte le parole che vanno di moda, come dicevo, non mi piace il termine, ma mi libero o almeno ci provo dei miei pregiudizi o meglio, per dirla con Gadamer, ne prendo consapevolezza e procedo con maggiore attenzione. Proviamo allora a sondarne la ragion d’essere e la così vasta diffusione nel nostro presente tentando di non limitarci alle più facili considerazioni e sperando di offrire uno stimolo per un pensiero “altro”. Il termine “resilienza” deriva dal verbo latino “resilire”, che significa “rimbalzare” o “saltare indietro”, veniva impiegato per esempio per indicare la capacità di risalire a bordo da parte di un marinaio caduto in acqua. Nel tempo il termine è stato impiegato in fisica per indicare la peculiarità di alcuni materiali di assorbire eventuali urti riprendendo, in seguito, la forma originaria, ma successivamente è stato esteso il suo impiego in un contesto psicologico per rappresentare la capacità di un essere umano di assorbire i traumi, metabolizzarli, adattarsi a momenti difficili e faticosi, per poi riprendersi recuperando il proprio equilibrio interiore facendo tesoro dei danni patiti. Il senso profondo del termine si accosta a quello di resistenza ma non coincide ed è bene distinguerlo. Credo possa andar bene un ricordo delle scuole elementari quando la maestra ci spiegò la differenza fra ferro e acciaio ricorrendo a un modo di dire che conoscevamo anche noi piccoli alunni, già, allora i modi di dire divenivano elemento comune a più generazioni, oggi si consumano nel breve volgere dei tempi della moda; torniamo alla maestra: il ferro orgogliosamente afferma, ci raccontò con buone doti interpretative, “Io mi spezzo ma non mi piego”, a lui replica l’acciaio “Io mi piego ma non mi spezzo”.
Credo che possa apparire sorprendente ai tempi attuali ma allora, parlo di più di mezzo secolo or sono, la nostra maestra si rivolse alla classe con una domanda apparentemente semplice, adatta alle nostre giovanissime menti, ma di una profondità notevole e, ancor più sorprendente, nella classe si accese un dibattito nel quale quasi tutti espressero il proprio favore nei confronti del carattere di ferro o del carattere d’acciaio, già, infatti, anche se l’insegnante spiegò i pro e i contro dei due materiali contestualizzandoli nell’ambito dell’edilizia, si era in pieno boom economico e il settore era trainante, la classe si confrontò, accogliendo l’antropomorfizzazione suggerita dall’insegnante, circa i comportamenti di uomini di ferro e uomini d’acciaio. Non sono in grado di rammentare per quale schieramento mi dichiarassi allora, ma il dibattito mi appare interessante ancora oggi, specie se proviamo a utilizzarlo come prospettiva nell’analisi di comportamenti sistemici applicata alla storia. Senza addentrarci in excursus da specialisti, mi piace riandare a un saggio romanzato di Marlo Morgan dal titolo “E venne chiamata due cuori” nel quale la scrittrice americana racconta una sua lunga camminata nel deserto in compagnia degli aborigeni dell’Australia. In realtà il testo è notevolmente emendabile, numerose le imprecisioni e le contaminazioni tra gli autoctoni australiani e i pellerossa d’America, ma quello che è interessante è la conclusione alla quale giungono gli aborigeni: piuttosto che rinunciare alla propria cultura anche solo prestandosi alla resilienza nei confronti dell’imperante sistema occidentale, meglio l’estinzione. Molte popolazioni Indios non si sono adattate al sopravvento dell’occidente e del suo sistema economico e culturale, una scelta diversa hanno fatto i neri africani che, resilienti, hanno ottenuto di raggiungere la presidenza degli USA.
È possibile riconoscere, nel breve rimando storico, la scelta della resistenza fino all’estinzione (mi spezzo ma non mi piego) e quella resiliente (mi piego ma non mi spezzo), entrambe degne e comprensibili ma decisamente contrapposte. Intanto sarà bene ricordare che non è inevitabile la sconfitta in chi non si piega e nemmeno che la resilienza sia garanzia di successo, forse sarebbe bene conservare ambiti nei quali ci si comporta ferrosamente e altri per i quali adottare atteggiamenti acciaiosi. È altrettanto importante sottolineare che il resiliente dovrebbe essere in grado di fare tesoro della sofferenza fino a trasformarla in utile personale. Come non ricordare l’abusatissimo pensiero nietzscheano espresso in Ecce homo: “Ciò che non uccide fortifica”, anche se, una volta tanto, non sono così d’accordo con il sommo filosofo. In verità le mie riserve sono rivolte soprattutto all’utilizzo superficiale e sommario del suo pensiero, la sua affermazione andrebbe contestualizzata all’interno del suo programma teso al superamento dell’uomo metafisico e alla costruzione del ponte verso l’oltre uomo. La futura nascita di quello che definisce come l’uomo nuovo attraversa una complessa e coraggiosa gestazione, una metamorfosi che può apparire come una patologia, in un certo senso, e comunque descrive il travaglio che vede morire la morale degli schiavi per restituire il nuovo nato al suo degno rango di “oltre uomo fortificato dal superamento del dolore e della morte di dio”.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.