Un po’ di ordine sul genere del saggio, romanzo d’avventure delle idee
- Postato il 4 ottobre 2025
- Di Il Foglio
- 2 Visualizzazioni

Un po’ di ordine sul genere del saggio, romanzo d’avventure delle idee
In questo periodo mi capita spesso di parlare in pubblico di saggismo. Così ho raccolto una serie di domande, obiezioni ed equivoci, i quali dimostrano la confusione che regna sul genere del saggio. Forse allora, anche in una breve sintesi, non è inutile mettere un po’ d’ordine. Il saggio moderno, alimentato da Seneca e da Plutarco, dalle lettere degli umanisti-scienziati e dai capitoli in terzine, nasce col progressivo sgretolarsi dei sistemi metafisici medievali. A differenza del trattato accademico e dell’instant book, esige di saper circoscrivere con esattezza una verità che si dà solo “in situazione”, nell’esperienza di un singolo di fronte a un evento o a un incontro (di qui la sua tendenza al dialogo socratico). Il Dante o lo Shakespeare del saggismo è Montaigne. Seguono i giornalisti inglesi e gli illuministi francesi del Settecento, cui si affianca una tradizione italiana ricchissima di opere ibride, che dopo Machiavelli e Guicciardini comprende Beccaria, Manzoni, Leopardi, De Sanctis.
A inizio Novecento, il nostro scrittore più influente è un saggista filosofico come Croce; lungo tutto il secolo, di rado la prosa dei nostri romanzieri raggiunge il livello di quella di critici-saggisti come Cecchi, Longhi, Praz o Debenedetti; e negli anni del boom perfino alcuni narratori e poeti cominciano a dare il meglio di sé nel saggio: Pasolini, Sciascia, Ginzburg… “Le idee di un saggista sono come i personaggi per un romanziere. Non ci sono idee senza (…) la storia drammatica” impiegata a produrle, diceva Garboli. E’ una definizione illustrata ante litteram da Savinio, che ne fa un manifesto di poetica: “Molti mi domandano il perché di questo mio passare da argomento ad argomento. Non si capisce? Perché io scrivo romanzi di avventure. Quali avventure oltre a quelle delle idee, ora che il mondo è tutto esplorato?”. I saggisti sanno cogliere le analogie concettuali tra caratteri che riguardano ambiti diversi della cultura e della realtà. Celebre, ad esempio, è un pezzo di Emilio Cecchi intitolato “Pesci rossi”, dove il differente aspetto dei pesci nella palla di vetro di un pasticcere – di profilo animali noti, di fronte idoli mostruosi – ispira all’autore una metafisica tascabile sulla contrapposizione tra occidente e oriente. In un brano non meno famoso, Giacomo Debenedetti spiega che il personaggio-uomo del romanzo tradizionale si sta dissolvendo come le misure newtoniane nella fisica, e arriva a parlare di “personaggio-particella”.
Per compiere con profitto queste trasformazioni metaforiche, bisogna mantenere un tatto stilistico che è il contrario dei link da retorica interdisciplinare. Il saggio non divulga un sapere che si potrebbe esprimere in altro modo. La sua forma ha una insostituibile funzione conoscitiva. Non è cioè “poco scientifico”, come pretendono i professori delle nostre degradate humanities; è invece la sola scienza che si dà di certe esperienze, davanti alle quali i gerghi pseudospecialistici falliscono. Si pensi ai modelli teorici (poststrutturalismo, ermeneutica, neodarwinismo…) che decennio dopo decennio invadono le facoltà letterario-filosofiche, più permeabili alle mode di qualunque teenager, e che acquistano una natura meramente burocratica: oggi, ad esempio, ne è spia il termine “postura”, usato ovunque senza necessità. Ecco: il saggio evita o scioglie questi idoli gergali. La sua costitutiva laicità non sopporta né le parodie ideologiche delle religioni, né la riduzione degli stili a stilizzazione. E’ il genere del tentativo, di chi non ha certezze. Da questo punto di vista è attualissimo; ma è anche inattuale - perché presuppone, a comprenderne le sfumature culturali, un pubblico abbastanza omogeneo che sembra scomparso. Forse però è già da Montaigne, e dalle prime riviste moderne, che il saggio deve inventare da sé i propri lettori.
Continua a leggere...