Tutto quello che faceva bene, ora fa male. I dieci passi dell’addio

  • Postato il 6 luglio 2024
  • Di Il Foglio
  • 2 Visualizzazioni
Tutto quello che faceva bene, ora fa male. I dieci passi dell’addio

Entrare in una casa senza riconoscerla, entrare in una casa solo per vedere lei. 

Tralasciare i particolari, non perdere tempo con gli occhi sulle cose: la cucina, la caffettiera sui fornelli e i piatti ancora nel lavabo dalla sera prima. E poi quello strano puzzle alla parete, chissà perché appeso lì, chissà preso da dove. Evitare domande sulla casa come sul mondo, questo dovrebbe essere l’amore. Anche perché, per quanto ci si sforzi anche con ostinazione, qualcosa resta sempre addosso. Quella doccia troppo fredda, il cigolio del letto, una porta che smette di aprirsi e lascia imprigionati, ma felicemente. Peccato solo che quel felicemente si tramuti rapidamente, per un errore del tempo e una scelta del destino (e per una colpa impossibile da negare), in un’infelicità dura da risolvere anche dopo lunghissime camminate nel nulla, in mezzo a nessuno là dove non è più città e ancora non è campagna. 

Gli oggetti e la casa quale suo reale contenitore restano addosso ai nostri corpi come parte essenziale della nostra memoria come spiega già Michele Mari nel suo ultimo bellissimo romanzo Locus desperatus (Einaudi) e come racconta con naturale struggimento ora Luigi Nacci in I dieci passi dell’addio (Einaudi). Primo romanzo dello scrittore ed escursionista triestino, I dieci passi dell’addio sono il racconto febbrile e disperato di un addio che si tramuta pagina dopo pagina in una forma logorante di svuotamento. Se l’abbandono prevede una fuga magari imbarazzata e irresponsabile, l’addio comporta una presenza ostinata che viene  scalpellata colpo su colpo dal tempo che trascorre: “Il dolore inizia a uscire dalle palpebre, dalle orecchie, dagli ombelichi, dai bulbi piliferi, inonda come un mare grosso il luogo in cui vi trovate. Il mondo viene sommerso. Le terre, i cieli. E’ un dolore che può raggiungere la luna. Oscurarla. Dopo gli abbracci che preannunciano la fine si torna a casa distrutti. Sei un profugo che ha perso tutto. Non sai più il tuo nome”.

Tutto ciò che prima occupava uno luogo e la mente, ora diviene uno spazio libero di essere occupato e invaso da incubi e paure. Le angosce si accumulano e anche l’ironia assume un’affilatura che trasforma subito quell’accennato sorriso in un rischio pioggia dagli occhi repentino e imbarazzante. Nacci racconta lo stato del dolore, lo fa con sguardo da etnologo. L’autore non cerca alcuna empatia perché basta osservare per venire invasi. Anzi è proprio nella distanza e in quell’oculata messa a fuoco che I dieci passi dell’addio rivelano una forza icastica solida e irriducibile. Una qualità originale che vive anche nella brevità di un romanzo che dice tutto senza pretendere una permanenza nel dolore che diventi stucchevole o retorica.

Nacci coglie il dramma della fine di un’amore in quella possibilità, ora persa, di toccare l’infinito. Quell’immortalità sempre promessa dal desiderio che ora risulta infranta e riporta gli amanti ora divisi inevitabilmente in uno stato di sconfortante mortalità: “L’amore è una delle poche cose eterne di cui tutti facciamo esperienza. Possiamo consegnarci a lui, sapendo che vivremo nel caos e nei dintorni del precipizio, che uscirono dalla rete parentale e non avremo più sicurezze”. Tutto quello che prima faceva bene ora fa male,  avverte Woody Allen in Annie Hall, e così avviene con gli oggetti dopo la fine di un’amore: perdono di senso e di sostanza. Quello che prima faceva tenerezza ora appare banale e inutile, quello che aveva unito in un’improvvisa risata ora lascia perplessi in un silenzio pesantissimo. Quella che prima era una casa accogliente, un rifugio intimo e condiviso ora diviene un nascondiglio di pura emergenza, un luogo in cui sparire dal mondo.
 

Continua a leggere...

Autore
Il Foglio

Potrebbero anche piacerti