Tutte le variabili di cui Trump non può non tener conto nei negoziati sui dazi. Scrive Bagella
- Postato il 14 aprile 2025
- Economia
- Di Formiche
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La moratoria sui dazi imposti alle merci straniere in entrata sul territorio americano è stata preceduta dalla caduta degli indici di tutte le borse del mondo, soprattutto del Nasdaq e del Nyse, così elevata da far sparire miliardi di ricchezza in poche ore nei due giorni precedenti. L’incubo di una crisi simile a quella del 1929 si è subito palesato tra gli operatori e l’onda d’urto che ne è derivata ha cominciato a spaventare anche i cittadini, non solo europei, soprattutto statunitensi, detentori di larga parte di essa attraverso fondi d’investimento, fondi pensione e tanti altri intermediari finanziari. La paura ha cominciato a farsi strada, subentrando alla fiducia, prima del panico.
Un quadro siffatto ha convinto il presidente Trump che non c’era altro mezzo per frenare tale caduta se non quello di sospendere per tre mesi l’applicazione dei dazi alle merci straniere, comprese quelle europee. Il rialzo immediato degli indici ne è stata la contemporanea conseguenza. Per poco però. Fino all’annuncio dell’applicazione di un dazio del 145% a tutte le merci provenienti dalla Cina, o da Paesi che ne hanno sempre facilitato l’ingresso negli Stati Uniti, come il Messico. La chiusura di venerdì con perdite contenute delle borse europee e americane fa pensare che gli operatori finanziari siano in attesa dell’inizio del negoziato tra i due grandi Paesi.
Per chi ragiona sulla base della struttura della economia mondiale non può che essere così. Le imprese americane, come quelle europee, grandi, piccole e medie, quotate o non quotate nelle borse valori, sono parte di una catena che le unisce tutte indipendentemente da dove producono. Ognuna è specializzata in un prodotto che invia a qualche impresa che lo richiede. La globalizzazione degli scambi negli ultimi 25 anni ha trasformato la Cina in un Paese Industriale, capace di concorrere con gli Stati Uniti anche nella produzione di alta tecnologia. L’aggressione all’Ucraina da parte della Russia ha cambiato tutti i rapporti rendendoli più facili tra Paesi “amici”, più complicati tra Paesi “nemici”. Non ha cioè interrotto la globalizzazione, bensì ne ha modificato le modalità in senso asimmetrico. Per questo motivo, il negoziato tra i due giganti, Stati Uniti e Cina, si dovrà necessariamente aprire. Questo è quanto si attendono i mercati, almeno finora.
Secondo il presidente Trump l’imposizione dei dazi dovrebbe permettere il raggiungimento di due obiettivi: la riduzione del deficit commerciale della bilancia dei pagamenti Usa, non ché la minore uscita di dollari (meno pagamenti per merci importate) dal Paese. Sul primo obiettivo c’è da considerare che la Cina ha elevato al 125% i dazi sulle merci americane. Pertanto la previsione che ne deriva è che si ridurrà l’interscambio tra i due Paesi. Per quantificare tale riduzione occorre attendere il negoziato, ma non solo. Neppure troppo celata da parte della Cina appare l’intenzione di disfarsi di parte del suo portafoglio di titoli del debito pubblico americano, stimato intorno ai 750 miliardi di dollari. La partita è quindi su più fronti. Tra questi quello più insidioso riguarda il futuro del dollaro come valuta internazionale. La perdita di valore rispetto alle altre monete di riserva che si sta già manifestando segnala vendite superiori alla domanda. Il che porta a dire che la trattativa con la Cina è già iniziata anche se non formalmente.
C’è da osservare che la perdita di valore del dollaro mentre accresce la competitività dei prodotti americani, rende meno attrattivo l’investimento in titoli denominati in questa moneta. Il che non è una buona notizia per l’amministrazione Trump, impegnata anche a ridurre (?) il deficit di bilancio. Il repentino aumento dei rendimenti dei suoi titoli segnala un comportamento preoccupato da parte degli operatori sull’esito finale della politica protezionistica del Presidente. In molti temono l’arrivo della recessione.
A meno di una “marcia indietro” del presidente, dalla strategia negoziale con il suo omonimo Xi e dagli obiettivi che si proporrà di raggiungere, dipenderà la stabilità finanziaria americana e internazionale. Di quest’ultima non sembra preoccuparsi molto l’inquilino della Casa Bianca, indifferente rispetto ai timori che la sua politica innesca sui mercati, e agli effetti potenzialmente negativi per la sua economia (tra i quali l’aumento dei rendimenti dei titoli del debito pubblico già in atto), ma attento all’impatto che essa avrà sull’elettorato. Dovrà gestire una contraddizione evidente. Se un dollaro debole favorirà le esportazioni delle imprese americane, al tempo stesso però, la perdita del suo potere d’acquisto, scoraggerà l’afflusso di capitali e l’investimento in titoli americani soprattutto di Stato. Trovare un giusto equilibrio tra i due effetti dipenderà, come detto, dal negoziato che si aprirà prima o poi con la Cina, che dispone, oltre alle tante armi, terre rare e tecnologia AI, anche di quella monetaria legata alla decisione di rinnovare o meno i bonds nel suo portafoglio. All’esito di questo difficile confronto è legata la stabilità dei mercati. Su di essa il faro delle borse rimane sempre acceso.