Tunisia, rivolta e arresti a Gabès contro la “fabbrica dei veleni”. Ma il presidente Saied vuole quintuplicare la produzione
- Postato il 25 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“La salute è un diritto, respirare è un diritto”. È questo lo slogan che il 21 ottobre migliaia di persone hanno scandito riempiendo le strade della città costiera di Gabès, nel sud-est della Tunisia, per chiedere la chiusura di un impianto statale del Groupe Chimique Tunisien (Gct), dedicato alla lavorazione dei fosfati e ritenuto dai residenti responsabile dell’aumento degli avvelenamenti da gas e dei gravi problemi di salute che affliggono la popolazione locale. La manifestazione, che ha visto la partecipazione di oltre quarantamila persone, è stata la più grande mai organizzata a Gabès ed è stata promossa insieme al principale sindacato del Paese, l’Ugtt, che per lo stesso giorno ha indetto uno sciopero generale. “A Gabès è tutto chiuso”, ha dichiarato Saoussen Nouisser, rappresentante locale del sindacato, spiegando che “siamo tutti arrabbiati per la catastrofica situazione ambientale nella nostra città emarginata”.
Lo sciopero generale e la manifestazione di massa arrivano dopo settimane di proteste locali, spesso represse con violenza dalla polizia e dall’esercito, che in diverse occasioni hanno fatto uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla. In alcune notti si sono verificati scontri tra residenti e forze di sicurezza, e decine di persone sono state arrestate lo scorso fine settimana. Al quotidiano panarabo The New Arab, Khayreddine Debaya, coordinatore del gruppo locale Stop Pollution, ha dichiarato che “oltre 100 persone sono state arrestate” solo sabato scorso. Già nel giugno scorso, tre manifestanti che avevano partecipato a una protesta a Gabès erano stati arrestati e condannati a pene detentive da due a quattro mesi per “disturbo dell’ordine pubblico”. Un rapporto di Amnesty International, pubblicato nello stesso periodo, denunciava la repressione degli attivisti ambientalisti nel Paese nordafricano, spesso arrestati, indagati o processati per aver manifestato pacificamente.
Secondo le autorità e alcune Ong locali, nelle ultime settimane oltre 200 persone sono state ricoverate in ospedale per difficoltà respiratorie e avvelenamento da gas. Alcuni video circolati online, che mostravano bambini con problemi respiratori, hanno spinto migliaia di cittadini a scendere nuovamente in piazza. Il 12 ottobre 25 Ong locali, tra cui la Lega tunisina per i diritti umani, hanno chiesto “lo smantellamento degli impianti inquinanti e l’adozione di un modello di sviluppo regionale alternativo alla morte lenta e all’inquinamento”. In risposta alle proteste, il presidente tunisino Kais Saied ha criticato la mancanza di manutenzione dell’impianto, vecchio di 53 anni, e ha inviato una squadra dei ministeri dell’Industria e dell’Ambiente.
Già nel 2017 il governo tunisino aveva promesso una chiusura graduale della fabbrica, ma all’inizio di quest’anno le autorità hanno invece annunciato l’intenzione di incrementare la produzione dello stabilimento. Il presidente Kais Saied, che da tempo punta a rilanciare il settore dei fosfati — definito da lui stesso un “pilastro dell’economia nazionale” — intende sfruttare l’aumento dei prezzi mondiali dei fertilizzanti per quintuplicare la produzione dell’impianto entro il 2030, passando da meno di 3 milioni di tonnellate annue a 14 milioni. In quest’ottica, lo scorso marzo il governo tunisino ha riclassificato i rifiuti solidi derivanti dalla lavorazione dei fosfati — i cosiddetti fosfogessi — che in passato erano stati considerati materiali pericolosi, definendoli ora sostanze riutilizzabili in determinate condizioni. Tali scarti, però, contengono elementi radioattivi che compromettono gravemente la qualità del suolo e delle falde acquifere: secondo gli attivisti, la causa principale dei problemi di salute riscontrati dalla popolazione di Gabès.
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