Trump spinge per la tregua, Bibi per l’invasione. Il punto su Gaza con Dentice
- Postato il 7 agosto 2025
- Esteri
- Di Formiche
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“Il conflitto si è ormai stabilizzato su un piano dichiaratamente politico. Non c’è più nulla di militare che giustifichi la prosecuzione delle operazioni su larga scala: gli obiettivi dichiarati all’inizio sono stati tutti raggiunti o, per meglio dire, ciò che si voleva realmente ottenere si è già ottenuto”, osserva Giuseppe Dentice, che sin dalle prime ore dell’inizio di questa stagione di guerra commenta mensilmente con Formiche.net l’evoluzione degli eventi. Per l’analista nell’Osservatorio Mediterraneo (OsMed) dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V, nella prosecuzione della guerra a Gaza c’è un disegno strategico chiaro: “Si tratta di completare un piano di annessione de facto, già in corso in Cisgiordania. L’occupazione totale della Striscia, se avverrà, sarà il tassello finale per decretare la fine della questione palestinese come oggetto della diplomazia internazionale”.
Parole che si inseriscono in un momento di svolta. La Casa Bianca, per voce del presidente Donald Trump e del suo emissario Steve Witkoff, ha fatto sapere che gli Stati Uniti intendono “prendersi in carico” la gestione degli aiuti umanitari a Gaza, insoddisfatti della condotta israeliana. Trump, che secondo i suoi collaboratori sarebbe “ossessionato” dalle immagini di fame e denutrizione tra i bambini gazawi, ha chiesto al suo team di coinvolgere partner arabi ed europei, mentre valuta una partecipazione diretta americana alla logistica degli aiuti. Un’iniziativa che arriva nel momento in cui il governo di Benjamin Netanyahu prepara invece quello step successivo — l’occupazione totale della Striscia, inclusa Gaza City — con il rischio concreto di colpire le aree dove si sospetta la presenza di ostaggi israeliani, oltre che aumentare i rischi per i civili. L’esercito è contrario, e lo avrebbero ribadito anche i quadri militari in un recente colloquio con il premier.
Secondo Dentice, la simultaneità tra pressione diplomatica americana sul versante umanitario e rilancio dell’offensiva militare israeliana non è affatto casuale: “Netanyahu sa che più il conflitto si allarga, più il dossier Gaza diventa ingestibile per Washington. La sua strategia è impedire qualsiasi tipo di compromesso o riconoscimento simbolico della Palestina, svuotando di senso ogni presa di posizione europea o internazionale. Non è un caso se Stati Uniti e Israele, pur restando alleati, oggi agiscono su binari divergenti: Tel Aviv vuole chiudere la partita, mentre Trump vuole abbassare la tensione, sebbene senza opporsi frontalmente all’escalation”.
Ma il cuore del problema, spiega Dentice, è interno a Israele: “C’è una crescente frattura tra l’esecutivo, completamente dipendente dalle spinte annessioniste dell’estrema destra sionista, e le principali istituzioni del Paese: magistratura, apparato diplomatico, parte dell’esercito. Più Netanyahu si affida ai ‘guardiani della fiamma’ e meno margini ha per negoziare. Ogni scossone interno è vissuto come un rischio esistenziale per la sopravvivenza stessa del governo”.
A pesare è anche l’incertezza politica. Le prossime elezioni sono previste per ottobre 2026, ma già ora la coalizione appare sotto pressione. “Ogni nuova operazione militare serve anche a tenere insieme l’alleanza di governo. Ma a che prezzo?”, si chiede Dentice. Il prezzo, oggi, è anche reputazionale: il termine “genocidio”, un tempo tabù nella società israeliana, viene adesso usato apertamente — a tratti anche con superficialità — non solo all’estero ma anche da settori dell’opinione pubblica interna. “La barriera simbolica è caduta. E questo apre uno scenario inedito di fragilità, anche morale, per lo Stato di Israele”.
Sul piano regionale, l’analista osserva che la guerra ha congelato — forse definitivamente — ogni ipotesi di rilancio degli Accordi di Abramo. “Le monarchie del Golfo, l’Egitto, la Giordania: tutti hanno rivisto la propria postura in senso più marcatamente filo-palestinese, almeno a livello di retorica e percezione pubblica. Parlare oggi di un Medi Oriente condiviso è irrealistico se Israele non mostra alcuna disponibilità a rivedere la propria visione egemonica”.
Intanto, conclude Dentice, si moltiplicano le frizioni nei contesti regionali collegati: Siria, Libano, Yemen e dunque Mar Rosso. “Lo scenario macroregionale appare immobile solo in apparenza: in realtà è attraversato da linee di faglia che potrebbero produrre nuove crisi. E ogni crisi, oggi, passa inevitabilmente da Gaza”.
“Il paradosso di questa situazione è che Hamas si muove in sintonia al governo israeliano, impedendo qualsiasi avanzamento concreto sul piano palestinese e non concedendo, prima di tutto alla sua popolazione, alcuna speranza per il futuro”, aggiunge Dentice, secondo cui devono essere lette in questi termini le posizioni di rigetto all’ultima denuncia della Lega araba e il fatto che il movimento islamico non è disposto a scendere a patti né con l’Autorità Nazionale Palestinese, né con alcun governo arabo. “Di fatto Hamas e governo israeliano si muovono specularmente per impedire qualsiasi evoluzione positiva sul terreno, alimentando l’un l’altro questa spirale di violenza e crisi umanitaria acuta”.