Trump, soldi e cannoni per strappare l’America Latina alla Cina. Il pretesto della lotta ai narcos per creare un laboratorio Maga

  • Postato il 28 ottobre 2025
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“La Cina traffica fentanyl attraverso il Venezuela“. Persino Donald Trump, noto per la sua schiettezza, si è avvalso qualche giorno fa dell’arte di dire senza dire, svelando a metà il vero motivo dell’operazione antidroga degli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi. La missione è giunta al suo 75° giorno con la portaerei Gerald R. Ford al largo del Venezuela e il destroyer Uss Gravely a meno di dieci chilometri dal Paese sudamericano, a Trinidad & Tobago, trasformata in punto di stoccaggio per le munizioni del South Command. Nelle stesse ore il mare ha restituito alle coste trinitarie due cadaveri sventrati dai bombardamenti statunitensi sulle imbarcazioni civili, presuntamente cariche di droga. Le operazioni non si fermano, neppure dopo che l’Onu le ha definite “esecuzioni extragiudiziali”, ma si sono estese nel Pacifico, sulle rive della Colombia. Quarantatré le vittime.

Ora il leader della Casa Bianca rivendica che il Mar dei Caraibi “è sotto controllo” e vi entra “meno del 5% della droga” che varcava i confini durante l’amministrazione Biden. Vittoria parziale, finora costata 750 milioni di dollari a Washington – cioè 10mila al giorno – senza tener conto degli importi richiesti dalla Gerald R. Ford, arrivata qualche giorno fa. “Non ci fermeremo fino a eliminare il nemico”, è la promessa di Trump, che apre alle operazioni terrestri contro i cartelli. Questi ultimi presuntamente guidati dal presidente venezuelano Nicolás Maduro, su cui pende una taglia da 50 milioni di dollari, e dal leader colombiano Gustavo Petro, ora nella lista dell’Office of Foreign Affairs assets control per i suoi “legami con il narcotraffico”.

Tuttavia l’engagement degli Stati Uniti non si riduce al Venezuela, né alla Colombia e nemmeno al fentanyl, ma ripropone dinamiche da guerra fredda e contrasta l’influenza di Pechino, che a tratti sembra aver strappato l’America Latina a Washington. Phil Gunson, analista di International Crisis Group, spiega all’emittente tedesca DW che il tentativo di Trump è quello di “recuperare l’egemonia statunitense nella regione, anche facendo uso della forza”. Alla luce dell’escalation diverse fonti si dicono preoccupate di “un ritorno agli interventi praticati nel ventesimo secolo”, le cui ferite “sono ancora aperte”.

Tornando alla Cina: il Paese asiatico acquista il 90% del greggio venezuelano, ha una bilancia commerciale di oltre 500 miliardi con la regione, memorandum d’intesa sulla via della seta e diversi crediti con i singoli Paesi: 60 miliardi di dollari sul Venezuela, 31 miliardi sul Brasile, 18 sull’Ecuador e 17 sull’Argentina. Inoltre nel mese di maggio Pechino ha aperto un’altra linea di credito di 10 miliardi ai Paesi della Celac, la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi

Di qui il ritorno in extremis degli Stati Uniti, che accerchia gli avversari – sono gli esempi di Bogotà e Caracas – o compra gli alleati, come accaduto con il recente intervento di 20 miliardi di dollari per dare ossigeno al governo di Javier Milei, con tanto di indicazioni all’elettorato argentino per le elezioni legislative del 26 ottobre. “Se Milei non vince non saremo così generosi”, ha detto presidente Usa, ricordando che Buenos Aires “non ha soldi” e “sta morendo”.

Sotto il controllo di Washington sono tornati anche l’Ecuador, che punta all’installazione di basi militari Usa nell’Isola di Galapagos, previa riforma della Costituzione, e la Bolivia, espulsa dall’Alba dopo la vittoria del moderato Rodrigo Paz, che ha escluso Cuba, Nicaragua e Venezuela dalla sua cerimonia di insediamento.

La manovra anti-cinese nella regione risale al dicembre 2024, quando, prima di assumere il secondo mandato, Trump ha parlato del ripristino del controllo statunitense sul Canale del Panama accusando il Paese centroamericano di aver violato l’accordo di neutralità, cioè di aver concesso la “gestione” e il “controllo” dell’area strategica alla Cina. Nel frattempo il colosso asiatico, attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, Lin Jian, condanna “le operazioni unilaterali ed eccessive degli Stati Uniti contro altri Paesi e imbarcazioni”. Più decisi appaiono Bogotà e Caracas, che chiedono l’aiuto della comunità internazionale, convocano l’insurrezione popolare e parlano – nel caso di Maduro – della nascita di Brigate internazionali, ma si guardano bene da sparare per primi.

Il dispiegamento militare non si limita quindi a sovvertire Maduro bensì a consolidare l’America Latina come laboratorio targato Maga, intrecciando nuove e vecchie formule di ingerenza. “I narcos? Come il terrorismo di una volta, sono la scusa per aggirare il nodo della sovranità degli Stati e quindi l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite”, dice a Ilfattoquotidiano.it una fonte dell’Università cattolica “Andrés Bello”. A tenere banco è rimasto soltanto il presidente brasiliano Lula Da Silva, il decano delle sinistre latinoamericane, che ha incontrato Trump a Kuala Lumpur. E il tycoon, che sembra così deciso a intervenire, dovrà senz’altro parlarne a quattr’occhi al vertice del 30 ottobre con il leader cinese Xi Jinping.

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