“Trump neoimperialista col Venezuela uccide illegalmente nei Caraibi. Gli Usa assuefatti, ma se muoiono i marines è diverso”
- Postato il 7 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il timore di operazioni via terra, l’accerchiamento delle forze armate statunitensi e le spinte per un regime change a Caracas. Le tensioni tra l’amministrazione Trump e il regime di Maduro si stanno progressivamente ampliando, mentre il New York Times scrive che la Casa Bianca ha sviluppato una serie di opzioni per un’azione militare, tra cui attacchi diretti contro le unità che proteggono il presidente chavista e mosse per prendere il controllo dei giacimenti petroliferi del Paese. “Nel suo primo mandato, Trump aveva adottato una politica estera meno interventista rispetto a quella che vediamo oggi, che ha tratti ostentatamente neoimperiale. Era stato eletto anche raccogliendo una sollecitazione, politicamente trasversale, a limitare l’interventismo e disimpegnare gli Stati Uniti. Il Venezuela era un nemico già allora. La retorica di Trump era stata molto dura, ma si trattava di un atteggiamento più cauto. Oggi invece emerge la volontà di massima pressione su Caracas, con l’obiettivo ultimo ed esplicito di far cadere Maduro e promuovere un cambiamento di regime”. Per Mario Del Pero, professore ordinario di Storia Internazionale e Storia degli Stati Uniti all’Institut d’études politiques – SciencesPo di Parigi e nelle librerie con “Buio americano. Gli Stati Uniti e il mondo nell’era di Trump” (Il Mulino), “è questo, adesso, l’obiettivo di Washington“.
Eppure Trump ha dichiarato la volontà di evitare conflitti non prioritari. Aveva definito anche quella in Ucraina “la guerra di Biden”, proprio per prenderne le distanze.
La sua strategia in politica estera è molto lontana dall’interventismo classico e sostiene di voler tutelare e difendere l’interesse degli Stati Uniti. Però nella seconda amministrazione Trump c’è un dato nuovo, che si è già manifestato nel discorso inaugurale.
Quale?
Si rivendica la possibilità per gli Stati Uniti di promuovere azioni finalizzate all’espansione del proprio territorio o alla promozione aggressiva dei propri interessi, anche con un’ingerenza fattiva nelle vicende interne di altri Paesi. Nel primo mandato non era così. Questa logica neoimperiale ha da subito messo al centro l’America latina. Nel discorso inaugurale si è parlato di Panama, poi di Cuba, e ovviamente della Groenlandia come ambizione di acquisizione territoriale.
Perché l’America Latina è così centrale per Trump?
Lo è per lui e lo è soprattutto perché al Dipartimento di Stato c’è un segretario come Marco Rubio. A differenza di quel che dice, non è figlio di esuli cubani, perché i suoi sono immigrati negli Stati Uniti per ragioni economiche 3 anni prima della rivoluzione castrista. Rubio è una figura di estrema destra, molto sensibile alle Americhe e con posizioni dure su una serie di regimi nemici, Venezuela e Cuba su tutti.
Quali sono i veri interessi di Trump a Caracas?
Come spesso accade, le scelte di politica estera sono un mix di ideologia, interessi e spregiudicatezza. Sicuramente c’è la volontà generale di alterare gli equilibri politici nelle Americhe e di avere regimi alleati. Non dimentichiamo che recentemente Trump ha aperto una linea di credito quasi a tasso zero di 20 miliardi di dollari a Milei in Argentina. Qualcosa di straordinario. Oltre a colpire governi nemici, c’è la volontà di attaccare Paesi che si ritiene esportino flussi migratori indesiderati verso gli Stati Uniti. Per ragioni umanitarie molti venezuelani, data la crisi in cui versa il Paese, se ne sono andati, in gran parte in Colombia. Ma centinaia di migliaia di loro sono arrivati negli Stati Uniti. Da qui la dimensione ideologica o, se vogliamo semplificare, il vecchio anticomunismo di Rubio. Centrale anche il contrasto alla penetrazione economica della Cina, che sul canale di Panama si era contraddistinta per una forte presenza. Poi ci sono altri interessi economici.
Quali?
Il Venezuela è un paese ricco di materie prime fondamentali, incluso il petrolio. Si ritiene che reinserire pienamente quello venezuelano nei circuiti globali possa essere vantaggioso. E poi ci sono interessi imprenditoriali vicini all’amministrazione, che includono anche l’industria estrattiva. Le grandi corporation americane sono tutte molto legate al partito repubblicano e finanziano le campagne elettorali. Quindi c’è anche questa ragione in più.
Che è significativa.
Sì, ma non esclusiva. È una variabile importante di un’equazione in cui ne convergono altre. C’è anche un legame col quadro politico interno: le ingerenze nelle Americhe sono strumentali per rendere più credibili le politiche draconiane in materia di migrazione. Così gli Usa di Trump vogliono dimostrare di erodere le cause profonde dell’immigrazione illegale e dell’autoritarismo. Il 15 marzo Trump ha promulgato un ordine esecutivo in cui dichiarava in atto un’invasione venezuelana degli Stati Uniti a causa della gang Tren de Aragua, che sosteneva operasse al servizio diretto di Maduro. In sostanza, per gli Stati Uniti se c’è un’invasione in atto si è di conseguenza in uno stato di guerra e tutte le misure sono lecite perché finalizzate all’autodifesa.
Ultimamente sembra però che la questione della deportazione dei venezuelani sia passata in secondo piano rispetto al bombardamento di presunte navi che trasportano droga verso gli Stati Uniti, sulle quali però non sono state fornite prove.
Le espulsioni di immigrati illegali senza regolare il permesso di soggiorno proseguono. Da un lato ci si è assuefatti e non fanno più notizia. Dall’altro procedono ma a ritmi molto più blandi di quelli promessi. Stephen Miller, il consigliere di Trump, lo zar che lavora per il Dipartimento della Homeland Security, vuole tremila espulsi al giorno. A oggi siamo sotto i mille.
Perché?
Perché i giudici intervengono e bloccano alcuni provvedimenti del presidente. In parallelo dal 2 settembre sono state avviate le operazioni di affondamento di barche che, dicono dalla Casa Bianca, trasportavano sostanze illecite negli Stati Uniti. Da allora c’è stato un ampio dispiegamento di forze militari e navali al largo delle coste venezuelane e nei Caraibi. A oggi le vittime sono più di 60. Certo, è altamente probabile che alcune di queste barche trasportassero droga, ma restano eliminazioni prive di fondamento legale. Il trafficante di droga dovrebbe essere arrestato e processato.
Quindi sono azioni illegali?
Sì, le eliminazioni sommarie lo sono, sia per il diritto internazionale che per quello statunitense. La competenza per dichiarare una guerra è del Congresso. In teoria l’amministrazione che intraprende atti militari di questo tipo deve notificare il Congresso dopo 48 ore ed ottenere una sua autorizzazione dopo 60 giorni. Lo stabilisce una legge del 1973, il War Powers Act. L’amministrazione Trump non lo sta facendo.
Che pretesti legali utilizza?
Che c’è uno stato di guerra con il Venezuela, che queste gang sono organizzazioni terroristiche straniere, riesumando così una categoria molto opaca utilizzata nella guerra al terrore post 11 settembre. E cioè che questi presunti membri di organizzazioni terroristiche, come le persone che stavano sulle imbarcazioni affondate, sono unlawful combatants, cioè combattenti illegali che quindi non sono protetti dalle convenzioni internazionali.
La mancanza di un quadro normativo preciso e delimitato crea disagio tra i repubblicani?
Non tanto. C’è stata una piccola mobilitazione di alcuni senatori Gop, oltre che democratici. Ci sono esponenti del movimento MAGA che guardano criticamente a quanto sta avvenendo perché disattende la promessa di non trascinare gli Stati Uniti in nuovi conflitti. Ma si tratta di posizioni minoritarie, per due ragioni: la galassia della destra conservatrice è nelle mani di Trump, che riesce sempre a convincere la sua base. In sostanza, è lui che controlla MAGA, non il contrario.
E l’opinione pubblica?
Queste modalità di azione contro presunti terroristi, nemici degli Stati Uniti e trafficanti di droga, non turbano particolarmente l’opinione pubblica. Gli Usa sono piuttosto assuefatti a queste forme di eliminazioni mirate, perché è la modalità con cui oramai da più di vent’anni conducono una campagna globale contro il terrorismo. Del resto sono stati loro i primi a utilizzare i droni e a promuovere una politica di targeted assassination. Al contrario ci sarebbero ostilità diffuse riguardo un’operazione di terra, o se morissero soldati americani.
Il dispiegamento militare nei Caraibi però è il più grande dalla crisi dei missili di Cuba.
Credo che l’obiettivo sia di esercitare la massima pressione su Maduro per indurlo a scappare e promuovere un cambiamento di regime. Non indolore, ma che non determini una guerra civile a Caracas. E allora gli Usa agiscono minacciando e facendo filtrare la notizia che la Cia è attiva in Venezuela. Una notizia che sembra studiata ad arte per spaventare Maduro.
Lui ha risposto dicendo di avere smantellato una cellula della Cia che puntava ad attaccare una nave americana.
È possibile. Questa è guerra psicologica, propaganda. Il modello è simile a quello del Guatemala nel 1954, quando la Cia mise in atto un’operazione simile e alla fine Árbenz Guzmán capitolò: prese paura e lasciò il potere. L’idea è di promuovere un cambiamento di regime attraverso un sistema di massima pressione come accadde allora. Portare i militari americani a intervenire in Venezuela è problematico per molti aspetti e in più rischia di ricompattare il fronte venezuelano di fronte a una violazione della propria sovranità.
Anche per gli Stati Uniti sarebbe un atto molto controverso.
Sì. Trump è disposto ad aspettare altri morti, perché nel frattempo altre imbarcazioni verranno affondate. Punta così a raggiungere l’obiettivo di rovesciare Maduro. E Rubio vorrebbe lo stesso risultato anche per Cuba.
Dal Venezuela leggiamo dichiarazioni di resistenza agli Stati Uniti. Qual è in realtà l’umore del regime chavista rispetto alle pressioni americane?
Non sono un esperto di America Latina, ma sappiamo che c’è stata un’emorragia di persone dal Venezuela, che ha divisioni interne profonde. Sappiamo che Maduro non è popolare, vista anche la crisi economica in cui versa il Paese e il crollo dello standard di vita. Precedenti storici vicini e lontani, dal Guatemala nel ’54 all’Iraq nel 2003, ci insegnano che questi regimi spesso hanno piedi d’argilla, e credo che Trump scommetta su questa fragilità.
Quindi lei esclude operazioni di terra in Venezuela e ritiene probabile che le pressioni si limitino all’accerchiamento.
Credo che ora come ora un intervento militare sia improbabile, anche se Trump potrebbe smentirci e ha l’abitudine di farlo.
Come può impattare questa tensione sulle trattative per i prigionieri politici, inclusi quelli italiani, tra i quali c’è Alberto Trentini? Ricordiamo che gli Stati Uniti sono stati coinvolti in diverse azioni di questo tipo.
È una situazione che non aiuta perché irrigidisce il regime. I prigionieri politici sono sulla carta una delle sue poche armi di scambio.
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