Trump, Mosca e il prezzo della pace. Pagliara analizza la strategia di Trump
- Postato il 4 giugno 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Sgombriamo subito il campo da un equivoco: Donald Trump non ha tradito alcuna causa. Ha legittimamente ridefinito l’interesse nazionale degli Stati Uniti sulla base del mandato ricevuto dagli elettori. Se Joe Biden ha impiegato buona parte del suo capitale politico per isolare la Russia, Trump è determinato a ricucire i rapporti con Mosca. E lo fa lasciando intravedere a Vladimir Putin non solo un cessate il fuoco lungo le linee attuali, ma anche l’uscita dall’isolamento internazionale, l’allentamento delle sanzioni e, in prospettiva, un ritorno nel consesso dei grandi, sotto forma di riammissione nel G8, dal quale è stato estromesso dopo l’annessione della Crimea.
Con queste aperture, gli Stati Uniti inseguono due obiettivi. Uno, immediato, è un cessate il fuoco che apra la strada a negoziati per un accordo di pace vero e proprio. Il secondo, molto più ambizioso e difficilmente raggiungibile, è quello di disarticolare l’alleanza “senza limiti” tra Mosca e Pechino, sancita da Xi Jinping e Putin, e con essa l’asse che va da Pyongyang a Teheran, passando per Pechino e Mosca.
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Ci sono ottime ragioni per giocare ora la carta della diplomazia. L’Ucraina fatica a reclutare nuovi soldati e l’Occidente mostra segni di affaticamento nel sostegno. Secondo un rapporto pubblicato dal Center for strategic and international studies (Csis), nel 2024 solo il 42% degli americani si è detto favorevole al mantenimento degli aiuti militari a Kiev, un calo netto rispetto al picco del 2022. Segni simili di stanchezza si sono registrati anche nelle opinioni pubbliche di altri importanti Paesi alleati. La minaccia, più volte ripetuta da Putin, di un utilizzo di armi nucleari, ha fatto breccia nella mente degli europei, anche perché nessuno, onestamente, può dire con certezza che si tratti solo di un bluff.
Ma anche la Russia è in difficoltà, nonostante la propaganda, spesso rilanciata da megafoni compiacenti in Occidente. Putin aveva previsto una guerra lampo. Invece ha ottenuto solo conquiste territoriali modeste a un costo in termini di vite umane altissimo. Il suo obiettivo dichiarato – far arretrare la Nato dai suoi confini – ha prodotto l’effetto contrario: Finlandia e Svezia, due Paesi storicamente neutrali, sono entrati nell’Alleanza atlantica. La tanto decantata resilienza dell’economia russa è, nei fatti, una costruzione di facciata. Il sistema economico è interamente militarizzato: secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), nel 2024 oltre il 39% della spesa pubblica russa è stato destinato al comparto militare, una soglia mai toccata nemmeno durante la Guerra fredda. I tassi d’interesse sono schizzati al 21%, l’inflazione è fuori controllo, e la leva militare resta limitata alle periferie del Paese per evitare di toccare le aree urbane, fonte del potere politico di Putin. Di certo, l’orgoglio dei generali russi deve aver vacillato quando Putin, pur di evitare un’estensione della mobilitazione militare, ha chiesto aiuto al più improbabile degli alleati: la Corea del nord di Kim Jong-un, il regime più repressivo al mondo, fanalino di coda in tutte le classifiche economiche.
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Trump è disposto a concedere all’Ucraina solo una partnership economica. La logica dell’America first lo spinge a concentrare le forze dove si gioca la partita del secolo: l’Indo-Pacifico, con la Cina che avanza.
Per l’Europa è scoccata l’ora della verità. Dobbiamo investire di più, collettivamente e individualmente, nella difesa: solo così la Nato resterà credibile e potrà continuare a esercitare la sua vitale funzione di deterrenza contro le mire revansciste di Putin.
Dobbiamo anche mettere in guardia l’amministrazione americana da un rischio che sembra sottovalutare: se l’iniziativa diplomatica intrapresa dovesse sfociare in un compromesso che premia l’aggressore, la Cina potrebbe sentirsi legittimata a tentare la conquista di Taiwan. In tal caso, Trump non sarebbe ricordato come il pacificatore, ma come a war time president: un presidente che ha trascinato il proprio Paese in una nuova guerra mondiale. Non Churchill, ma Chamberlain.