Trump minaccia Harvard di sospendere l'accesso ai fondi federali

  • Postato il 2 ottobre 2025
  • Di Il Foglio
  • 1 Visualizzazioni
Trump minaccia Harvard di sospendere l'accesso ai fondi federali

La vicenda che vede contrapposte l’amministrazione e Harvard è ormai assurta ad una rappresentazione politica teatrale che combina logica simbolica, tattiche amministrative e il ricatto delle risorse per raggiungere un obiettivo netto e spettacolare, ossia spezzare la capacità di resistenza delle università d’élite e poter mostrare lo “scalpo” di una istituzione simbolica come prova di forza. Le accuse pretestuosamente mosse dall’esecutivo si reggono sul quadro secondo cui Harvard avrebbe mostrato “indifferenza deliberata” verso episodi di antisemitismo verificatisi sul campus nell’ambito delle proteste sul conflitto israelo-palestinese; da questa artata ricostruzione è partita l’azione dell’ufficio competente del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, che ha invocato il Titolo VI per sostenere la possibilità di intervenire con provvedimenti che incidono sui finanziamenti federali. Harvard e le sue entità collegate ricevono ogni anno dall’amministrazione federale somme dell’ordine di miliardi di dollari per ricerca, e la minaccia di bloccare o rendere inaccessibili quei fondi rappresenta una leva economica capace di generare danni immediati e duraturi ai programmi.

 

La reazione di Harvard è stata immediata e complessa: l’università ha impugnato in sede giudiziaria le decisioni esecutive, denunciando che le restrizioni imposte rappresentavano una ritorsione politica e una violazione dei principi costituzionali, in particolare della libertà di espressione e del diritto a un processo corretto. In un passaggio significativo della contesa, un giudice federale ha dichiarato illegittimi i tagli ai fondi, stabilendo che il loro uso aveva aspetti punitivi più che correttivi e che l’azione poteva essere letta come una forma di pressione ideologica contro un’istituzione che aveva esercitato i suoi diritti. Nonostante questa pronuncia, però, l’esecutivo non ha ritirato l’azione: in questi ultimi giorni, ha scelto piuttosto di rilanciare su un piano differente, passando dalla contesa pubblica e giudiziaria a strumenti amministrativi che producono effetti concreti più rapidamente e con meno ostacoli procedurali, attraverso la via della sospensione e bando dall’accesso ai fondi federali (debarment).

 

Sospendere significa porre un divieto provvisorio all’accesso a nuovi contratti e sovvenzioni mentre prosegue la valutazione; il bando minacciato significa che, una volta concluso l’iter, è possibile dichiarare l’ente non idoneo sul piano degli standard di responsabilità decisi dall’amministrazione e quindi inidoneo a essere destinatario di fondi e contratti federali per un periodo determinato. Il bando non si limita all’agenzia che la propone: il soggetto inserito nella lista di bando viene pesantemente ostacolato nelle relazioni con l’intero apparato governativo, perché molte agenzie e programmi rifiutano di concedere sovvenzioni o contratti a chi è sotto bandito, e i subappalti legati a progetti finanziati dal governo vengono immediatamente posti a rischio. In pratica, un bando può paralizzare progetti di ricerca pluriennali, interrompere collaborazioni internazionali, compromettere il reclutamento e la conservazione del personale, e costringere a tagli o sospensioni che poi risultano difficili da rimettere in moto anche se, sul piano giudiziario, l’università recupera ragione.

 

L’iter amministrativo che porta al bando prevede tappe formali: una notifica di proposta (show-cause o proposed debarment), un periodo di attesa per una risposta scritta della parte interessata e la possibilità di richiedere un’audizione; le regole prevedono termini stringenti per esercitare il diritto di udienza — in questa vicenda è stato richiamato, in modo evidente, il diritto dell’università a richiedere un’audizione entro tempi molto rapidi — e la decisione finale viene assunta da un apposito funzionario o da un giudice amministrativo. Dal punto di vista probatorio, la valutazione amministrativa non coincide necessariamente con gli standard adottati in sede penale o civile: l’agenzia valuta se è nel “best interest of the government” escludere il soggetto, un criterio che incorpora elementi gestionali e di valutazione del rischio, rendendo la via amministrativa particolarmente efficace per chi intende ottenere impatti immediati prima di un verdetto definitivo dei tribunali.

 

Questa scelta spiega la protervia dell’esecutivo. Procedere per via amministrativa, pur dopo sentenze sfavorevoli in aula, è una strategia di attrito: ogni nuovo atto amministrativo produce costi operativi, genera incertezza sui contratti già in corso, ritarda i bandi di finanziamento, blocca assunzioni e rende più difficile reclutare talenti. Anche quando i tribunali ordinano il ripristino dei fondi, gli effetti pratici del blocco restano: personale che è stato lasciato andare non può essere recuperato immediatamente, bandi chiusi non si riaprono automaticamente, scadenze mancate e requisiti amministrativi persi incombono sui singoli progetti. Di fatto, l’università si trova a dover combattere su più fronti — giudiziario, amministrativo e politico — e a sostenere un dispendio di energie che logora la capacità di risposta collettiva. Per l’amministrazione, invece, questa guerra di usura è politicamente conveniente: infliggere un danno anche temporaneo a un’istituzione simbolica come Harvard è uno strumento potente di mobilitazione della base elettorale, rafforza la narrativa anti-élite e lancia un segnale deterrente verso altre università che potrebbero opporre resistenza a iniziative governative affini. Per alcuni attori politici, manifestare la capacità di piegare o danneggiare le élite accademiche è un obiettivo in sé, utile a consolidare consenso e a dimostrare efficacia.

 

Dietro la strategia c’è anche un elemento di vendetta rituale e di segnalazione: colpire le università più visibili risponde sia a una logica simbolica sia a una logica tattica, perché il messaggio arriva lontano e rapido e impatta su media, donatori e alleanze politiche. Per questo la contesa non può essere letta solo come una disputa di merito sul modo in cui Harvard ha gestito singoli episodi di odio, ma come un tentativo strutturato di rimodellare l’autonomia accademica tramite l’uso strumentale degli strumenti amministrativi federali. Il danno, se la strategia dovesse prevalere, non sarebbe circoscritto: per gli Stati Uniti significherebbe indebolire la capacità di competere nella scienza e nella tecnologia a livello globale, compromettendo pipeline di innovazione che necessitano di continuità e stabilità pluriennale. Per il mondo accademico internazionale sarebbe la presa d’atto che nemmeno le istituzioni più prestigiose sono immuni da campagne politiche aggressive, creando un precedente che rende ogni ente di ricerca vulnerabile al ricatto politico. Sul piano interno, la perdita è anche di fiducia nelle garanzie istituzionali: la scienza e l’istruzione superiore funzionano se possono pianificare a medio e lungo termine, se le carriere dei ricercatori non sono continuamente messe a rischio da contese politiche e se la selezione dei progetti si fonda su criteri meritocratici piuttosto che su fedeltà ideologica.

 

La gravità di quanto messo in campo rende evidente perché l’amministrazione abbia ritenuto accettabile pagare il prezzo delle critiche internazionali e delle condanne politiche: a livello di consenso interno l’azione risulta spesso “a basso costo” e ad alto ritorno simbolico. Ma proprio per questo la posta in gioco è alta: se lo strumento amministrativo diventa pratica comune, le università rischiano di trasformarsi in istituzioni più docili e ricattabili, con impatto negativo sulla qualità della ricerca e sulla capacità dello Stato di guidare progetti scientifici strategici. Se invece il sistema legale, la società civile e i controlli istituzionali tengono, il prezzo politico per l’esecutivo potrebbe rivelarsi molto elevato. La vicenda Harvard è dunque una manifestazione limpida della guerra culturale in atto, ma anche un banco di prova istituzionale: misura fino a che punto la burocrazia federale può essere impiegata come arma e fino a che punto la comunità politica e giuridica è disposta a difendere l’autonomia delle istituzioni che producono conoscenza.

Continua a leggere...

Autore
Il Foglio

Potrebbero anche piacerti