Trump difende il Qatar, Israele sotto pressione diplomatica ma rinsalda l’asse con Washington

  • Postato il 15 settembre 2025
  • Di Panorama
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Le parole di Donald Trump hanno avuto l’effetto di un sasso nello stagno. Commentando l’attacco israeliano contro i leader di Hamas a Doha, il presidente americano ha scelto toni che hanno immediatamente colpito opinione pubblica e osservatori internazionali. «Un messaggio per Bibi Netanyahu? Devono fare molta attenzione. Devono agire contro Hamas. Ma il Qatar è stato un grande alleato degli Stati Uniti, anche se molti non lo sanno», ha dichiarato. Poi ha raccontato di aver parlato con l’emiro, definendolo «una persona straordinaria» e consigliandogli di investire di più nella comunicazione internazionale per contrastare l’immagine negativa che il Paese, a suo dire, ingiustamente subisce. Un’uscita destinata a pesare, perché arriva in un momento in cui l’operazione israeliana in Qatar ha destabilizzato la diplomazia regionale. Durante il vertice straordinario arabo-islamico convocato a Doha, la bozza di dichiarazione finale ha parlato senza mezzi termini di «brutale aggressione», mettendo in discussione il percorso avviato con gli Accordi di Abramo del 2020. Da allora, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco hanno normalizzato i rapporti con Israele sotto l’egida di Washington, e l’obiettivo resta l’Arabia Saudita, considerata il pilastro decisivo per rendere irreversibile il processo. Sul palco, Recep Tayyip Erdogan ha usato toni durissimi, accusando Israele di perseguire «una mentalità rapace e assetata di sangue». Il presidente turco ha puntato il dito contro Benjamin Netanyahu, accusandolo di voler «trascinare la regione nel caos con massacri contro il popolo palestinese». Ancora più radicale la posizione del premier iracheno Muhammad Sudani, che ha lanciato la proposta di una «Nato araba» come strumento di difesa comune contro Israele. Secondo Sudani, l’attacco di Doha rappresenterebbe non un fatto isolato, ma un’aggressione contro l’intero mondo arabo.

Mentre a Doha montavano le accuse, a Gerusalemme Netanyahu affrontava la questione interna più delicata: le ricadute dell’isolamento diplomatico sull’industria militare. Intervenendo a una conferenza del Ministero delle Finanze, ha ammesso che le difficoltà di importare componenti strategici e la minaccia di nuove sanzioni stanno rallentando la produzione di armi. «Potremmo essere costretti ad adattarci a un’economia autarchica. È la parola che odio di più, ma potremmo non avere alternativa», ha dichiarato, aggiungendo con enfasi: «Siamo Atene e Sparta; saremo Atene e Super-Sparta». Parole che hanno immediatamente innescato la polemica politica interna. Yair Lapid ha accusato il premier di trascinare Israele verso il collasso: «L’isolamento non è un destino ineluttabile, ma il frutto di politiche sbagliate. Così si rischia di trasformare Israele in un Paese del terzo mondo, quando potrebbe invece tornare a essere un’economia di primo livello». Eppure, nonostante le difficoltà sul piano internazionale, Netanyahu ha potuto vantare un dato di estrema rilevanza: l’alleanza con Washington non vacilla. Al contrario, appare più solida che mai. A dimostrarlo è stata la presenza in Israele di una delegazione di 250 parlamentari americani, un segnale politico che il premier non ha mancato di sottolineare. «Apprezziamo il vostro sostegno», ha detto Netanyahu, parlando di un «tentativo orchestrato da Cina e Qatar di erodere il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti». Secondo il premier, mentre Teheran costruisce un «assedio militare» attraverso le sue milizie, Doha e Pechino guiderebbero un’offensiva digitale sui social media occidentali per isolare Israele. Ma la stretta alleanza con Washington, ha ribadito, resta il baluardo che consente allo Stato ebraico di resistere all’assedio politico e mediatico.Anche sul piano operativo, la collaborazione resta costante. Negli ultimi mesi, intelligence e difesa hanno intensificato il coordinamento.

Lo Shin Bet e l’IDF hanno rivendicato l’eliminazione di centinaia di combattenti della Jihad islamica, tra cui ventuno figure di alto livello: comandanti di battaglione, capi delle unità di cecchini e dirigenti della produzione di armamenti. Tra i nomi diffusi figurano Mohammad Radwan Ramadan Mushtaha, responsabile degli arsenali nel nord della Striscia, e Amir al-Shaam Faiz Wadi, a capo dei tiratori scelti a Khan Younis. L’offensiva, hanno ribadito i militari, continuerà senza sosta. Ma la dimensione diplomatica resta la più delicata. L’attacco a Doha ha già incrinato un fragile equilibrio costruito negli ultimi anni, rilanciando la retorica di una «Nato araba» e mettendo in discussione la traiettoria della normalizzazione. Al tempo stesso, emergono scenari inediti. Secondo la tv israeliana i24NEWS, Stati Uniti e Israele starebbero valutando con diversi Paesi, persino con l’Iran, un piano per trasferire fuori dalla Striscia i dirigenti di Hamas. Un «esilio volontario», con la Tunisia tra le destinazioni considerate più probabili. Per ora, però, non ci sono conferme ufficiali. In questo quadro complesso, la lezione che emerge è duplice: sul piano regionale Israele appare sotto pressione crescente, mentre sul fronte transatlantico l’asse con Washington resta saldo, quasi rafforzato dalle difficoltà. Netanyahu lo sa bene e continua a giocare su questa certezza: senza gli Stati Uniti, Israele rischierebbe davvero l’isolamento; con loro, può ancora resistere all’assedio diplomatico che si stringe attorno allo Stato ebraico.

Autore
Panorama

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