Triste non è la parola giusta

  • Postato il 31 dicembre 2025
  • Di Il Foglio
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Triste non è la parola giusta

"Triste non è la parola giusta" di Gabriel Abreu (Sur), tradotto da Dea Merlini, è una ricostruzione –  compatta e stilisticamente molto interessante – della vita di una donna, la madre dell’autore. Ma la ricostruzione è volutamente frammentata, non solo perché si basa esclusivamente sui veri documenti rinvenuti in una scatola nel suo armadio, ma anche perché il vero oggetto della ricerca è piuttosto il legame fra madre e figlio. Ciò che ricerca Gabriel Abreu è una voce; quella che trova per prima è la voce di sé stesso bambino. La madre, infatti, ha tenuto un diario durante il primo anno della sua vita, il 1993, e il diario è scritto dal punto di vista del bambino stesso. M., donna giovane, madre felice, interpreta il figlio e gli dà voce. Trent’anni dopo, è la madre a non avere più voce – è ancora viva, ma soffre di una grave e precoce demenza. Ha perso la parola. Il libro è scritto in terza persona, proprio perché l’oggetto dell’investigazione è un qualcosa di esterno sia alla madre che a G, il figlio, ma che li riguarda entrambi. Nella scatola c’è il diario, e ci sono delle lettere. Una corrispondenza durata anni con un uomo con cui M. si è incontrata solo una volta, con cui non ha avuto una storia d’amore ma di amicizia; un modo per descrivere questo rapporto è il mancato incontro, una malinconica attesa senza eccessivo pathos. Anche in questo caso, “triste non è la parola giusta” per questo mancarsi, ma allora qual è? 

Questo non è il primo lavoro di “memoir documentaristico” che Sur porta in Italia, continuando l’ottimo lavoro di pubblicazione di opere dallo spagnolo latinoamericano (e dal portoghese brasiliano, come in questo caso). Ricordiamo La chiamata. Storia di una donna argentina di Leila Guerriero, storia di Silvia Labayru, rapita e torturata durante la dittatura argentina, e L’invincibile estate di Liliana, di Cristina Rivera Garza, che ricostruisce il femminicidio della sorella Liliana, avvenuto a Città del Messico nel 1990 e attraverso diari, lettere, testimonianze e ricostruzioni indaga le dinamiche della violenza di genere. Apparentemente l’operazione di Triste non è la parola giusta può sembrare più intimista, meno politica, invece condivide con i titoli citati un forte radicamento nella letteratura civile. Non è solo una ricerca delle radici, quella che fa Gabriel Abreu, ma è la ricerca di che cosa vuol dire avere la parola, dire la verità, ricordare. E Abreu ricerca con notevole originalità – nel mescolare materiali, dichiarare intenti. E con il coraggio di togliere, dando fiducia al lettore.

    

Gabriel Abreu
Triste non è la parola giusta
Sur, 168 pp., 16,50 euro

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Autore
Il Foglio

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