“Traditi e intrappolati in un eterno Purgatorio”. I Millennials sono i più colpiti dal burnout: esausti prima ancora di iniziare la giornata
- Postato il 30 ottobre 2025
- Salute
- Di Il Fatto Quotidiano
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Stanchi già al risveglio, esausti prima ancora di iniziare la giornata: così si sentono molti lavoratori italiani. Secondo l’indagine HR Trends 2025 di Randstad Professional Leaders Search & Selection, realizzata insieme all’Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli dell’Università Cattolica, un lavoratore su tre riferisce un vissuto legato al burnout o allo stress lavoro-correlato frequente, mentre sette su dieci chiedono che le aziende si occupino di più del loro benessere mentale. Tra i più colpiti ci sono i Millennials, i nati tra il 1981 e il 1996, la generazione che più di altre si trova in un limbo, tra aspettative tradite e nuovi valori del lavoro. Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con Angelo Salvi, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, e socio fondatore di “Aliante – Studio di formazione e consulenza”.
Che cosa si intende per burnout?
Un esaurimento psichico e fisico che si manifesta in diversi modi: mancanza di concentrazione, mal di testa, gastrite, ansia e un disagio rispetto alla relazione con l’altro. Alcuni sintomi sono simili a quelli dello “stress lavoro correlato”.
Questa espressione designa una condizione diversa dal burnout?
Le differenze sono due. La prima è che chi incorre in un problema di burnout non se ne rende conto, mentre chi soffre di stress lavoro correlato ha sintomi più lampanti e quindi se ne accorge maggiormente. La seconda è che il burnout è una problematica che colpisce per lo più chi lavora nel terzo settore o nelle organizzazioni pubbliche (ad esempio ospedali). Il soggetto interessato è così coinvolto a livello empatico nella relazione con l’altro – solitamente persone fragili come tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, adolescenti a rischio, pazienti oncologici, etc. – da non vedere di essere arrivato al limite.
Con conseguenze che ci si porta anche a casa, fuori dal contesto lavorativo?
Sì, perché in entrambi i casi salta il bilanciamento del “work-life balance”, per cui vita lavorativa e privata diventano un “continuum”. C’è chi è sempre arrabbiato, aggressivo, e chi è stanco, spento, e inizia a sviluppare ad esempio tratti depressivi o fortemente ossessivo-compulsivi.
Quali le cause che portano i lavoratori a questo punto?
Se per il burnout, come detto, la causa principale risiede nella relazione con persone bisognose di aiuto che diventa eccessiva, nel caso dello stress lavoro correlato – più trasversale e che può colpire dall’operaio all’educatore di una casa famiglia per malati psichiatrici, al manager di una multinazionale, all’impiegato di un Ministero – il discorso è più complesso. Può dipendere da una eccessiva mole di lavoro che non solo porta ad abusare delle proprie energie, ma fa sì che il lavoro diventi l’unico luogo di realizzazione a scapito di altri aspetti della vita personale, come la famiglia, le passioni, lo sport. O, ancora, dal contesto socio-culturale in cui si vive, permeato dall’idea della performance e di standard che non sempre si riesce a raggiungere. In quanto esseri umani siamo fallibili e imperfetti: possiamo diventare più bravi, ma aspirare all’eccellenza è una forzatura. Infine da un ambiente lavorativo in cui non ci si sente ascoltati, riconosciuti e valorizzati.
Ci sono campanelli d’allarme che un HR o un capo dovrebbero riconoscere?
Il fatto che il proprio team inizi a essere molto demotivato, o che ci si metta spesso in malattia, così come dipendenti che manifestano una forte propensione al conflitto. Al contrario, anche la sovramotivazione di persone che chiedono continuamente di lavorare, di rivedere gli obbiettivi in una sorta di loop in cui il bisogno di lavorare diventa quasi una droga.
Che cosa fare in questi casi?
Fermarsi, capire che cosa sta succedendo. Il che vuol dire parlarne, ovvero non negare quello che sta accadendo, e analizzarne le cause. Dopo aver sviluppato consapevolezza si può intervenire.
In che modo?
Magari con colloqui individuali. All’interno del welfare aziendale ci sono spesso sportelli d’ascolto con uno psicologo; altrimenti si possono fare interventi di formazione sullo stress lavoro correlato spiegando che cos’è, quali sono i sintomi e le cause. Un’altra via percorribile sono le attività e tecniche di rilassamento: dalla mindfulness allo yoga, agli esercizi di bioenergetica che lavorano ad esempio sulla voce così come sulla postura. La differenza di realizzazione degli interventi citati tra for-profit, no-profit, e pubblico in questo senso è abissale.
Perché?
Il for-profit, proprio perché è consapevole che lo stress dei propri lavoratori comporta anche un bspesso sta molto attento a questi aspetti e interviene in maniera repentina presentando una serie di possibili interventi per aiutarli. Il pubblico e il no-profit purtroppo si muovono più a rilento.
La generazione più colpita da queste problematiche pare sia quella dei Millennials. Come mai?
I Millennials sono in una fase di transizione: da una parte non hanno visto le proprie aspettative appagate come le generazioni precedenti, dall’altra hanno iniziato a sviluppare in anticipo rispetto alla Gen Z un’altra visione del lavoro, ma è come se tutto questo non fosse stato integrato. Molti di loro pensavano che il lavoro potesse essere una parte sostanziale della propria identità personale, ma nel momento in cui sono entrati nel mondo del lavoro non hanno trovato le stesse possibilità di quelli che li hanno preceduti. Ci sono state una serie di aspettative tradite. Poi la crisi del 2008 che ha comportato cambiamenti molto forti anche da un punto di vista economico e sociale e, più recentemente, la pandemia che ha contribuito a stravolgere ulteriormente la situazione. E il risultato è che i Millennials si trovano a lungo in una sorta di Purgatorio.
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