Tra AI e rivoluzioni culturali. Agostino Ghiglia: “Più educazione digitale o saremo schiavi delle macchine”

  • Postato il 2 febbraio 2025
  • Di Il Foglio
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Tra AI e rivoluzioni culturali. Agostino Ghiglia: “Più educazione digitale o saremo schiavi delle macchine”

È come se la lancetta delle ore, o addirittura dei minuti, marciasse più rapidamente. Dieci anni e anche meno ci vorranno perché un occupato su quattro possa essere sostituito dall’intelligenza artificiale, in una società sempre più simile a una costellazione di tribù. Dove ciascuno, in base ai dati che profonde nei device, troverà solo ciò che lo riflette. Come nell’allucinante scena degli specchi immaginata da Orson Welles per “La signora di Shanghai”.

È preoccupato Agostino Ghiglia, componente del Garante per la protezione dei dati personali, autore di un dizionario e di un abbecedario sull’educazione civica digitale, mentre un nuovo protagonista, DeepSeek, fa dalla Cina improvvisa ma non inaspettata irruzione sulla scena dell’intelligenza artificiale generativa.

Il Garante della privacy è intervenuto con una richiesta di informazioni a DeepSeek, quindi giovedì 30 gennaio l’ha bloccata con effetto immediato, ritenendo “del tutto insufficiente” la sua risposta.
L’Autorità italiana è stata, in questa come in altre occasioni, la prima a muoversi in Europa. Fu la prima anche ad accendere i fari su TikTok con due provvedimenti successivi. Su DeepSeek è stata contestualmente aperta un’istruttoria, sempre allo scopo di tutelare i dati di milioni di utenti italiani.

Sono adeguatamente protetti?
In Europa, Gran Bretagna compresa anche dopo la Brexit, vige il Gdpr, uno stringente regolamento sulla protezione dei dati personali che non ha eguali nel resto del mondo, anche se la Commissione Ue ha emesso una “decisione di adeguatezza” rispetto agli Stati Uniti, fondamentale per le società che vi trasferiscono dati o hanno sedi americane. È diverso per i rapporti con le aziende cinesi, che stando alla loro normativa nazionale hanno l’obbligo di fornire i dati se richiesti alle proprie autorità.

Bastano gli interventi dei garanti?
Bisogna insistere sull’educazione civica digitale come materia scolastica dalle primarie. I bambini dagli 8 ai 13 anni passano da 4 a 6 ore ‘onlife’, per dirla con il professor Luciano Floridi. Non è solo una evoluzione tecnologica, ma una rivoluzione culturale. Fino a qualche anno fa, quando s’andava in pizzeria ci si lamentava del chiasso dei piccoli che scorrazzavano tra i tavoli. Ora sembra di entrare in sacrestia: sono inchiodati agli smartphone a guardare i cartoni animati. Persino Google, che ha la politica più trasparente
sulle condizioni d’uso, decide comunque i contributi da proporre. Bisogna che tornino a farlo i genitori: abbandonare i figli alle macchine non rende un buon servizio alle prossime generazioni. Fa riflettere che in Cina le regole per i minori sui social siano molto più rigide anche per la verifica anagrafica.

Forse più educazione digitale servirebbe anche agli adulti.
Sicuramente. Preoccupa la leggerezza con cui i genitori considerano i social semplici strumenti di divertimento e non di profilazione, più o meno mascherata, per trasformare l’essere umano in oggetto di consumo segmentando gli interessi individuali con una tribalizzazione della società. La rete non è neutra e se qualcosa è gratuito il prezzo sei tu. Senza contare gli effetti sulla memoria, sulle capacità di concentrazione e sulla dipendenza.

È in corso un mutamento antropologico?
È antropologico finché c’è l’uomo al centro, ma lo è sempre meno quanto più la macchina si arricchisce dei nostri dati, li sintetizza e li restituisce. Non è più intelligente, ma più potente. Il rischio è sviluppare umani incapaci di farne a meno, che si sentono onniscienti perché digitano una domanda a ChatGPT. Nessuna scoperta si è mai diffusa con la velocità dell’intelligenza artificiale
generativa. Con una differenza rispetto ad altre invenzioni epocali: il motore a scoppio cambiò la storia, ma chiunque fu in grado di capirlo e anche un meccanico analfabeta poteva ripararlo. Ora invece gli stessi creatori dell’Ia non sanno prevederne gli sviluppi. Diceva Marie Curie che occorre temere solo ciò che non si può capire.

Qual è un plausibile scenario a breve?
Considerando che già oggi potrebbe soppiantare un ingegnere di medio livello nella scrittura dei codici, l’intelligenza artificiale generativa applicata alla robotica potrà rendere inutile, anzi sostituibile, un quarto degli attuali occupati nei rispettivi lavori. Mi sento un nostalgico ma del futuro, perciò credo che l’unica risposta sia sviluppare la crescita mentale personale. Senza un’alfabetizzazione digitale di massa, le nuove generazioni rischiano di finire preda delle macchine e di non distinguere il vero dal falso. Il regolamento
europeo impone di marchiare i video confezionati con l’intelligenza artificiale, ma nel nostro continente siamo un diciannovesimo dell’umanità. Altrove non esistono le medesime cautele e chi non riconosce il vero dal falso perde il libero arbitrio.

Il metaverso è tramontato prima di brillare?
Tutti cominciarono a parlarne quando Mark Zuckerberg tirò fuori la parola, più che altro una trovata pubblicitaria, una bolla che si sgonfiò, letteralmente copiata dal romanzo di fantascienza “Snow Crash” di Neal Stephenson.

Cosa pensa della rinuncia di Meta al fact-checking?
Sono un avversario dei fact-checking perché più che a una caccia al fasullo puntano a una limitazione della verità, come ha ammesso Zuckerberg candidamente. È stato un meccanismo per nascondere notizie e favorire la lettura unica degli avvenimenti. Credo che a noi bastino due pilastri: l’articolo 21 della Costituzione e l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sulla libertà di espressione e d’informazione.
 

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Autore
Il Foglio

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