Ti ricordi… Joao Saldanha, il giornalista “senza paura” che inventò il Brasile più forte di sempre

“Facile parlare (o scrivere), andare in panchina è un’altra cosa”. C’è chi lo ha fatto però, scrivere e andare in panchina, creando quella che probabilmente è la più forte nazionale di sempre, e vincendo un mondiale (o quasi). Si chiamava Joao Saldanha ed era nato esattamente 108 anni fa ad Alegrete, città agricola, ritenuta “la più gaucha” del mondo. Forse, perché il forse è una costante nella vita di Saldanha. Faccia spigolosa, carattere molto di più. Figlio di un rivoluzionario, da bambino veniva utilizzato per nascondere e contrabbandare armi. A 14 anni la famiglia si trasferisce a Rio: Joao ama il calcio ma anche un sacco di altre cose, dalla politica, all’arte, alla scrittura.

Lo studio da un lato, il pallone dall’altro, diventando leader studentesco all’università e diventando anche calciatore professionista al Botafogo, oltre che un ottimo giocatore di basket: contano le idee, il coraggio, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni. E allora quel ragazzo diventa per tutti “Joao sem medo”, Joao senza paura. D’altronde sono anni particolari in Brasile: c’è Vargas che ha appena fatto un golpe instaurando l’Estado Novo e abolendo il parlamento. Joao, iscritto al partito comunista e punto di riferimento del partito all’università, partecipa agli scontri con la polizia.

Essendo un calciatore del Botafogo può partecipare ai tornei internazionali, essendo un abile oratore e parlando più lingue può portare la propaganda del partito oltre i confini nazionali. Nel 1939 dovrà rinunciare al calcio, pare per un brutto infortunio, e comincerà a viaggiare: andrà in Europa, millantando col suo spirito Gaucho di aver assistito personalmente a fatti memorabili fianco a fianco ai protagonisti: aver vissuto lo sbarco in Normandia accanto a Montgomery però appare un tantinello esagerato, e non trova neppure molte conferme. È vero invece che dopo la fine della guerra divenne giornalista, restando in Europa: racconta dei campi di concentramento nazisti e di tante altre cose.

Torna in Brasile, in un paese attraversato da forti tensioni politiche: Saldanha scrive su Folha do Povo, è responsabile dell‘Unione Politica Studentesca e direttore tecnico del Botafogo. Durante un Congresso per la Pace litiga con il capo della polizia Cecil Borer, lo affronta con una sedia, l’altro ha una pistola e Joao viene colpito a un polmone. Pare sia in questa occasione, per mano di Nelson Rodrigues, che Saldanha diventa “Joa sem medo”.

È il 1947, Joao si riprende e riparte: il sindacato in Brasile, in Cina, in Corea, le lotte, gli scioperi, i racconti e il calcio che viaggia sempre in parallelo. Già, perché passano dieci anni e Saldanha si ritrova sulla panchina del Botafogo… senza avere alcuna esperienza di allenamento. Eppure i suoi commenti sferzanti mostravano una competenza sopraffina, tanto che la dirigenza di O’Glorioso decide di affidargli la guida della squadra in un periodo di profonda crisi. E vince subito Saldanha, sistemando a dovere una squadra dove mancavano i risultati, ma non certo il talento: ci sono Quarentinha, Paulo Valentin, Didì, Nilton Santos… Garrincha. Gli ultimi tre saranno protagonisti anche della vittoria del Brasile ai Mondiali del ’58. Ma è pur sempre Joao sem medo, oggi si parlerebbe di un allenatore per nulla aziendalista, forse pure qualcosa in più nel caso di specie, e quindi ci mette poco un gaucho linguacciuto, colto e ribelle che non si fa problemi ad affrontare a sediate il capo della polizia a mettersi di traverso rispetto a politiche societarie non condivise. Il Botafogo vende Paulo Valentim e Didì, lui si dimette.

Torna al giornalismo, ovviamente alla sua maniera: si scaglia contro il golpe militare che depose Goulart, commenta il disastroso mondiale del ’66 in Inghilterra e in patria finisce al centro di un’altra sparatoria. Accusa di corruzione il portiere del Botafogo Manga, che a suo dire avrebbe accettato mazzette dal presidente del Bangu, con quest’ultimo finisce in rissa, ma quando Manga lo invita alla festa per il titolo per sistemare la questione lui lo prende alla lettera, si presenta e gli spara, per fortuna senza colpirlo. Insomma, si è capito che nella vita di Saldanha non mancano i colpi di scena, il più incredibile è quello del 1969 quando Havelange, presidente della Federcalcio brasiliana, convoca una conferenza per presentare il nuovo ct verdeoro.

Ci sono tutti i giornalisti, tra loro naturalmente Saldanha: Havelange si presenta e comunica a tutti che il nuovo ct è appunto… Joao Saldanha. Il giornalista si alza, si siede al tavolo, spiega che vuole “undici bestie” e soprattutto comunica quello che sarà l’undici titolare del suo Brasile. Soprattutto, perché risolve il dilemma che aveva afflitto i suoi predecessori, “Pelè o Tostao”, facendoli giocare assieme, e con loro pure Jaizinho e Gerson gettando le basi per quella che probabilmente è stata la nazionale di calcio più forte di sempre. E infatti quel Brasile è letteralmente devastante: vince tutte le partite delle qualificazioni ai mondiali, vince le amichevoli, segna a raffica.

C’è un problema però: quell’attacco è meraviglioso ma non c’è Maravilha, inteso come Dadà Maravilha, buon centravanti dell’Atletico Mineiro, squadra preferita del dittatore Emilio Medici. Iniziano i contrasti, inizia la propaganda anti Saldanha, vana tanto da spingere Medici a dichiarare che “Non si può andare in Messico senza Dadà Maravilha”. A quel punto Saldanha potrebbe adeguarsi, se non si chiamasse Saldanha, e infatti replica che Medici non lo interpella quando sceglie i ministri, non farà altrettanto lui nel selezionare i calciatori. Il problema è che Saldanha mette in dubbio Pelè, ormai trentenne, e se il contrasto a un dittatore non aveva intaccato la sua posizione il contrasto a O’Rei ne provoca l’esonero.

A marzo del 1970, a pochi mesi dal mondiale messicano, sulla panchina della Selecao viene chiamato Zagalo: Dadà Maravilha ci sarà, non giocherà neanche un minuto, e il Brasile dei “cinco dez” plasmato da Saldanha si laureerà campione del mondo. Non siederà mai più in panchina, farà solo il giornalista, seguendo il Brasile in Spagna, alle Olimpiadi, in Italia nel ’90, dove morirà per una crisi respiratoria. Tra strali, pistolettate, rivoluzioni e sbruffonate, mettendoci in mezzo la nazionale più bella di tutti i tempi, perché “Se non sei il più bravo, devi essere il migliore”, parola di Joao sem medo.

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Il Fatto Quotidiano