The Mastermind: Kelly Reichardt firma un gioiello rétro sul fallimento e la disillusione americana

  • Postato il 2 novembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 3 Visualizzazioni

Il lezioso anacronismo cinematografico di The Mastermind è delizia per i nostri occhi. Volutamente antimoderno e antispettacolare, incentrato sulle sfortune di un antieroe borghese rapinatore anni settanta, l’ultimo film di Kelly Reichardt (First cow, Meek’s cutoff), produzione super indie con distribuzione Mubi, è di quei film che a breve non vedremo più fare, se non per qualche festival modello Cannes e Venezia.

Caper movie lineare e quieto, annebbiato nelle tonalità vintage del direttore della fotografia Christopher Blauvelt e accompagnato da un tessuto jazzistico ironico e sincopato di Rob Mazurek, The Mastermind racconta la pianificazione sottile, la realizzazione semplice e soprattutto i fallimentari e disastrosi momenti che seguono il furto eclatante di quadri astratti in un museo di un quartiere residenziale del Massachusetts nel 1970. Mente sopraffina del colpo è l’ebanista mezzo disoccupato, ma figlio di un ricco giudice, JB Mooney (Josh O’Connor) che, assieme a un manipolo di delinquentelli locali, chiaramente schizzati e inaffidabili, non all’altezza della situazione, si impantana in un tragico insuccesso.

Tutto dalla recitazione ai movimenti di macchina, dalla ricostruzione degli spazi (strade, auto, case, pensioncine, suppellettili) e alle dinamiche del crimine, ha un tono minimale, appena accennato, privo di gesti o scarti eclatanti (almeno fino al twist finale). Ed è sulla fase dove tutto per JB va a rotoli che Reichardt concentra sardonica e persistente la sua attenzione affabulatoria. JB del resto è un perdente vero, pizzicato continuamente dal padre, aiutato economicamente dall’aristocratica madre e supportato e sopportato dalla giovane moglie (Alana Haim).

Nonostante all’epoca, in mancanza di videocamere e allarmi piazzati ovunque, la possibilità di rubare oggetti preziosi senza essere riconosciuti non fosse così remota come oggi, il cul de sac in cui si infila JB, tra poliziotti specializzati e criminali più cattivi e scafati di lui, è purissimo cinema di fuga con tanto di satira sociale riferita a quegli hippie sistemati che osservano JB e le sue gesta con ipocrita e schifata bonomia ideologica.

Il protagonista è figura comunque ambigua, capace di scippare una vecchietta per tirare su qualche soldo come di lasciare i figli piccoli da soli in un centro commerciale per il lungo tempo del furto da compiere. Così se JB nella sua funzione di ruolo somiglia al tombarolo che O’Connor interpreta come protagonista in La Chimera di Alice Rohrwacher, è la totale inadeguatezza in una parte emblematica ed eclatante come quella di un capo banda di rapinatori di opere d’arte che Reichardt ama realisticamente riportare con freddo e millimetrico calcolo registico. Un po’ come gli eco terroristi di Night Moves – film che andrebbe assolutamente recuperato in tempi di climate change e relativi agitatori a fermare auto in mezzo alle strade – il JB di The Mastermind sembra sopraffatto dalle ombre gerarchicamente più in alto di lui che gli si stagliano attorno, nonché curiosamente e completamente avulso dal contesto generale, qui la guerra in Vietnam che scorre con le sue fumanti e omicide rovine sui televisori in interni. O’Connor con quella faccetta da cane bastonato, sempre con qualche vestito scomposto, mutandoni e ciabatte, la barba distrattamente mal fatta, è così naturalmente mimetizzato nelle sue pratiche da loser ingegnoso e sfigato da risultare senza troppi sforzi un anonimo ometto di provincia.

L'articolo The Mastermind: Kelly Reichardt firma un gioiello rétro sul fallimento e la disillusione americana proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti