Thailandia-Cambogia, la debolezza del Sud-Est asiatico e gli interessi di Usa e Cina. Che cercano di prendersi i meriti della tregua
- Postato il 2 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Per quanto debole e traballante, il cessate il fuoco siglato lunedì da Thailandia e Cambogia rappresenta una svolta importante. Non solo perché ha fermato il bilancio di morti (oltre 40) e sfollati (quasi 300mila) lungo il confine conteso tra i due paesi da decenni. L’intesa rivela nuovi equilibri nella geopolitica dell’Indocina, quadrante storicamente nelle mire delle potenze extraregionali, prima in epoca coloniale e poi durante la guerra fredda. Il dato più rilevante è il ruolo da protagonista della Malesia, che al momento ricopre la presidenza dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, organizzazione intergovernativa fondata per promuovere la cooperazione economica, politica, di sicurezza, sociale e culturale tra i suoi membri, ma che sinora si è sempre dimostrata inconcludente nel risolvere le crisi locali, dai contenziosi sulla sovranità nel mar Cinese meridionale alla guerra civile in Myanmar. Servirà ancora del tempo per valutare se la riuscita mediazione sia il sintomo di una crescente solidità istituzionale dell’ASEAN o se piuttosto – come sembra – vada attribuita perlopiù alla capacità diplomatica di Kuala Lumpur e alla volontà politica delle parti coinvolte. In entrambe le eventualità, tuttavia, emergere il tentativo di dirimere la controversia a livello regionale. Anche considerando l’inadempienza della Thailandia ai verdetti emessi negli ultimi decenni dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) che si è sempre espressa a favore del rivale asiatico.
Va detto tuttavia che difficilmente Bangkok e Phnom Penh si sarebbero seduti al tavolo negoziale senza le pressioni esterne: Cina e Stati Uniti, rappresentati all’incontro da alti diplomatici, fin da subito hanno incoraggiato il dialogo a modo loro. Donald Trump ha minacciato di sospendere le trattative commerciali con entrambi i paesi fino al raggiungimento di una tregua (il cui effetto è stato di portare le tariffe dal minacciato 36% al 19%). Pechino, dal canto suo, ha agito come sempre con maggiore discrezione. Ha espresso rammarico per le perdite umane e ha offerto di facilitare “attivamente i colloqui di pace” e svolgere “un ruolo costruttivo” mantenendo una “posizione equa e imparziale”. Alla teatralità e alla coercizione del presidente americano, la leadership cinese contrappone un approccio teso a influenzare l’ASEAN dall’interno, facendo leva sulla presenza costante e duratura nelle dinamiche regionali. Insomma, sull’affidabilità che manca alla “Taco-diplomacy” (Trump always chickens out).
Come sottolinea su The Diplomat Khoo Ying Hooi, docente di relazioni internazionali presso la Universiti Malaya, lo scontro tra Thailandia e Cambogia più che fornire chiarimenti solleva ulteriori dubbi sulla capacità dell’ASEAN di gestire autonomamente i conflitti locali. Il principio di “non interferenza”, pilastro dell’organizzazione, si mostra sempre più inadeguato in contesti di crisi umanitarie. La Malesia ha mostrato che insieme si può agire con efficacia. Ma per l’ennesima volta il Sud-est asiatico fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta di scacchiere di un “grande gioco” altrui.
D’altronde la rivalità tra Bangkok e Phnom Penh ha preso forma proprio sullo sfondo dei grandi conflitti internazionali, durante la Seconda Guerra Mondiale e poi al tempo della Guerra Fredda. Un decennio prima della guerra del Vietnam, la Thailandia aderì all’ Organizzazione del Trattato del Sud-Est asiatico (SEATO), sostenuta dagli Stati Uniti, fungendo da baluardo contro la diffusione del comunismo, che in Cambogia attecchì con i Khmer Rossi. Da allora il “Paese dei sorrisi” è rimasto un fedele alleato di Washington in Asia con cui, ancora oggi, collabora strettamente in materia di difesa. Negli ultimi decenni, tuttavia, l’importanza della Thailandia nella politica estera americana è diminuita, soprattutto da quando gli Stati Uniti hanno ricucito le relazioni con il Vietnam. Intanto a Phnom Penh il pensionamento di Hun Sen, ex khmer rosso e premier per quarant’anni, ha portato a un parziale avvicinamento agli Usa. In particolare dopo il passaggio del testimone al figlio Hun Manet che – sebbene non mostri maggiore rispetto per i valori democratici rispetto al padre – avendo studiato presso l’Accademia militare di West Point e la New York University sa meglio trattare con l’occidente.
Qualcosa di simile vale anche per la Cina: è intimamente legata alla Cambogia dai tempi di Pol Pot, che sostenne per contrastare l’influenza sovietica nella regione. Negli ultimi anni Pechino ha confermato il proprio supporto, finanziando l’ampliamento della base navale di Ream, situata sulla costa cambogiana in un punto strategico per il controllo delle rotte marittime nel mar Cinese meridionale contempo (mentre le strutture costruite da Washington sono state demolite senza spiegazione). Oggi però tanto la Thailandia quanto la Cambogia sono entrambi partner fondamentali per la Repubblica popolare. Non solo in termini economici, ma anche per il mantenimento della sicurezza nella regione. Requisito diventato anche più importante con l’esplosione delle cosiddette scam city e del traffico di essere umani tra i tre paesi. Non è quindi così scontato che Stati Uniti e Cina, storicamente su fronti opposti, fossero insieme ai negoziati per il cessate il fuoco. Ancora meno scontata è la natura del loro coinvolgimento. “La presenza di diplomatici sia statunitensi che cinesi ai colloqui è certamente significativa, ma non la definirei una collaborazione formale” – ci spiega Joeanne Lin, Senior Fellow e coordinatrice del centro sugli studi ASEAN presso l’ISEAS di Singapore – che evidenzia come in rappresentanza delle due superpotenze non fossero presenti funzionari ministeriali, un requisito normalmente previsto in caso di negoziati ufficiali. “Quello a cui stiamo assistendo è un impegno parallelo, guidato da un interesse comune per la stabilità regionale, piuttosto che da una mediazione coordinata” – aggiunge l’esperta – “la Cina, più direttamente coinvolta, ha segnalato il suo impegno nel vedere il conflitto attenuarsi, probabilmente per preservare i propri interessi regionali e rafforzare la propria immagine di potenza responsabile nel Sud-Est asiatico”. Thailandia e Cambogia sono tra i pochi paesi del quadrante a non avere dispute territoriali con Pechino. Che l’operazione sia perlopiù simbolica lo dimostra un trilaterale avvenuto mercoledì a Shanghai tra il viceministro degli Esteri cinese Sun Weidong insieme ai rappresentanti di Bangkok e Phnom Penh, in cui le parti “hanno ribadito il loro impegno per il consenso sul cessate il fuoco e hanno espresso apprezzamento per il ruolo positivo della Cina nel ridurre l’escalation della situazione”.
Ma il meeting sembra più incentrato sull’apparenza che sulla sostanza, soprattutto perché avviene a cose fatte: l’accordo è già stato raggiunto. Secondo Lin, Pechino starebbe cercando di “rivendicare il merito diplomatico del successo e rafforzare la propria immagine di forza stabilizzatrice nella regione”. Anche per sfilare una potenziale nuova “vittoria” al “President of PEACE”, dopo il presunto negoziato tra Pakistan e India rivendicato da Trump. Intenzione che Pechino non ha nascosto, anzi ha reso esplicita identificando la causa del conflitto tra Bangkok e Phnom Penh nel “colonialismo occidentale”. Se non ci sono sufficienti elementi per parlare di “mediazione coordinata”, per Lin, il coinvolgimento delle due superpotenze nella crisi non è nemmeno tale da costituire “una guerra per procura”, come vorrebbe la narrazione dominante costruita sul ricordo di una rivalità che – lo abbiamo detto – ha radici lontane. “L’aspetto positivo è che stavolta Cina e Stati Uniti hanno dimostrato che, nelle giuste circostanze, possono convergere pragmaticamente quando i loro interessi sono allineati” – conclude l’analista – “ in questo caso l’obiettivo principale per entrambi è avere un Sud-Est asiatico stabile e sicuro”.
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