Terre rare, gli Usa firmano l’accordo con l’Australia. Così Trump continua a sfidare la Cina sulle materie prime critiche

  • Postato il 21 ottobre 2025
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Un accordo sui minerali critici e le terre rare con l’Australia. E’ il cuore dell’intesa firmata ieri a Washington da Donald Trump e il premier di Canberra Anthony Albanese, che prevede la creazione di una “pipeline” da 8,5 miliardi di dollari per garantire agli Stati Uniti l’accesso diretto alle materie prime critiche del continente australiano. Un’alleanza strategica per il controllo delle catene di approvvigionamento più sensibili del pianeta, diventata ancor più necessaria per gli States dopo la recente stretta imposta sul settore dalla Cina, primo produttore mondiale di terre rare che nella dottrina adottata dal tycoon in questo secondo mandato è il principale avversario degli Stati Uniti sul piano internazionale.

Pechino controlla oltre il 70% della produzione mondiale e più dell’85% della raffinazione delle terre rare, indispensabili per tecnologie come turbine eoliche, semiconduttori, batterie e sistemi radar. Il 9 ottobre la Repubblica popolare ha annunciato una serie di restrizioni la cui entrata in vigore è prevista per il 1° dicembre e che si basano – caso unico fino a questo momento – sul principio dell’extraterritorialità: ogni prodotto realizzato anche all’estero contenente terre rare cinesi richiederà una licenza dalla Cina per poter essere commercializzato.

Il gigante asiatico aveva già introdotto limitazioni simili ad aprile, ma fino a poche settimane fa i rapporti tra le due superpotenze sembravano distesi in virtù della doppia proroga dell’entrata in vigore dei dazi incrociati. Il clima si è inasprito dopo i colloqui tenutisi a Madrid il 15 settembre, quando era stato raggiunto l’accordo sulla cessione della divisione Usa di TikTok. In base a questa intesa, la sponda statunitense del social network sarà gestita da una nuova entità con sede negli Usa controllata da investitori americani, con la società madre cinese ByteDance che manterrà una partecipazione inferiore al 20%. Pechino la considerava una concessione significativa e si aspettava un atteggiamento conciliante da parte di Washington. Invece il 29 settembre la Casa Bianca ha varato una norma che estende le restrizioni alle esportazioni anche alle filiali delle aziende sanzionate, colpendo il settore dei semiconduttori e i colossi hi-tech come Huawei.

Ora è arrivata la mossa di Pechino, la cui stretta sulle terre rare rappresenta un grosso problema per gli Usa, che dipendono dalle forniture cinesi per la costruzione di sistemi militari come droni, missili e sottomarini. Una necessità che aveva motivato anche l’accordo predatorio stretto con l’Ucraina il 30 aprile sullo stesso tipo di materiali. “Non permetteremo più a una singola nazione di avere il monopolio di risorse vitali per la nostra sicurezza”, ha detto Trump annunciato l’intesa con l’Australia. Al centro del patto c’è un pacchetto di progetti infrastrutturali e industriali da 8,5 miliardi pensati per accelerare la produzione e l’esportazione delle materie prime. “Vogliamo essere un partner affidabile per la sicurezza delle catene di approvvigionamento globali”, ha detto Albanese, sottolineando che “la cooperazione rafforza non solo le nostre economie, ma la nostra posizione strategica nel Pacifico”.

Sul piano pratico Canberra ha confermato la creazione di una “riserva strategica nazionale” di minerali critici del valore di 1,2 miliardi di dollari australiani, con l’obiettivo di renderla pienamente operativa nella seconda metà del 2026. In cambio, Washington valuterà prestiti agevolati, garanzie pubbliche e investimenti diretti per sostenere impianti estrattivi e di raffinazione in territorio australiano. Al momento il testo integrale dell’accordo non è pubblico e restano da chiarire alcuni punti chiave: l’elenco completo dei minerali inclusi, i volumi annuali di fornitura, le clausole di esclusività commerciale e, soprattutto, chi gestirà la raffinazione. L’Australia possiede grandi risorse, ma nel campo non dispone ancora di capacità paragonabili a quelle del gigante asiatico.

La mossa rientra nel contesto del patto militare “AUKUS“, un progetto da 240 miliardi di dollari tra Usa, Australia e Regno Unito con il quale Washington punta a consolidare un blocco economico-strategico nell’Indo-Pacifico in chiave anti-cinese. La Casa Bianca, riferisce Reuters, sta riesaminando l’accordo, raggiunto nel 2023 sotto la presidenza di Joe Biden, in base al quale Canberra acquisterà sottomarini nucleari dagli Stati Uniti nel 2032 prima di costruire una nuova classe di sommergibili in partnership con Londra.

L’amministrazione Trump aveva annunciato di volerlo rivedere, ma il governo di Canberra scommette sulla sua continuazione. Il mese scorso ha stanziato 12 miliardi di dollari australiani (6,7 miliardi di euro) per costruire il distretto militare di Henderson a Perth, con bacini di carenaggio per la manutenzione dei sommergibili, e pochi giorni fa il ministro australiano della Difesa Pat Conroy è volato a Washington per firmare un nuovo patto con il Department of War degli Usa e il colosso americano delle armi Lockheed Martin. Il testo prevede che l’Australia inizi a produrre entro la fine dell’anno missili guidati da esportare negli Usa e apra un ufficio in Alabama per seguire il progetto.

Per Washington, quello siglato con l’Australia è un tassello di una strategia più ampia per diversificare gli approvvigionamenti e rendere meno vulnerabile la sua industria high-tech rispetto al quasi-monopolio cinese. Per Canberra, è una scommessa geopolitica: diventare un fornitore strategico di materie prime critiche per l’Occidente, ma senza incrinare i rapporti con la Cina. Oggi Pechino è ancora la principale destinazione delle esportazioni australiane di materie prime e l’accordo con gli Usa potrebbe rendere delicata la futura gestione dei rapporti diplomatici. L’accordo intanto, ha osservato un analista citato da Guardian, “potrebbe ridefinire la mappa delle forniture globali di minerali critici nei prossimi cinque anni“.

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