Sumud Flotilla, lo scrittore Vanni Bianconi: “Un’esperienza difficile da ripetere, ma i veri eroi sono i palestinesi, non noi che eravamo a bordo”
- Postato il 3 dicembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Sulla Flotilla ci tornerebbe, ma “non è detto che la seconda volta avrà la stessa attenzione mediatica della prima” e allora, anche con molte più barche, si rischia pure “che qualcuna la affondino”, dice Vanni Bianconi, scrittore e poeta svizzero del Canton Ticino, che ha scritto il primo libro sulla Global Sumud Flotilla. Si chiama “Wahoo! Un’Odissea al contrario”, edito da Marcos y Marcos. Dopo Locarno lo presentano oggi 3 dicembre a Milano alla Libreria del Convegno (ore 19) e il 17 dicembre a Roma (Libreria Giufà).
Wahoo! è la barca di cui Bianconi era l’organiser, il responsabile politico, anche se non è un attivista. L’abbiamo conosciuto con le fascette ai polsi sul blindato che ci trasferiva dal porto di Ashdod al carcere di Keziot, prima col riscaldamento acceso e poi con l’aria condizionata gelida. Ci siamo ritrovati insieme a Istanbul, riportati indietro dal governo turco con tutti gli onori: “Non è che arriva anche Erdogan?”, si chiedeva Bianconi, con una certa preoccupazione. “Ma le battaglie non puoi farle tutte insieme”, taglia corto ora. Ai primi 26 italiani rimpatriati ha pagato tutto la Turchia, agli svizzeri la Confederazione ha invece ha presentato il conto: “A me hanno chiesto 300 franchi, ad altri anche mille”, dice Bianconi.
Nato nel 1977, vive tra Londra e Locarno, è stato responsabile dei programmi culturali della Radiotelevisione svizzera italiana, tra i creatori della rivista plurilingue www.specimen.press e della piattaforma internazionale di podcast www.tornasole.audio, le sue poesie sono state tradotte in dodici lingue. Ha scritto un libro denso, cronaca e diario di bordo ma anche opera letteraria, dove i droni si mescolano alle stelle e l’Odissea al contrario è il viaggio verso l’inferno di Gaza. Lì però lo aspettava Qasem Waleed, un giovane fisico che racconta il genocidio su Al Jazeera, sfollato nove volte dal 7 ottobre 2023: gli scriveva mentre Bianconi navigava e il libro si chiude con una conversazione tra i due, lo svizzero e il palestinese. I diritti d’autore serviranno a ricostruire la casa della famiglia di Qaseem a Khan Younis.
C’è chi ha fatto una certa fatica a tornare alla vita normale. È successo anche a te?
Mi è successo a gennaio, quando sono tornato dalla Cisgiordania. Lì era difficile, ero a Tubas, non è lontano da dove hanno picchiato i tre italiani e la canadese qualche giorno fa. Stavo con i beduini, gli israeliani spaccano i denti anche ai loro figli, gli distruggono le cose, gli uccidono le pecore e loro non si lamentano. E poi sono tornato in Svizzera dove c’è tutto e di più e una lamentela costante: ho fatto molta fatica. Stavolta tra scrivere, fare incontri e andare nelle scuole non mi sono ancora fermato un attimo, non ho avuto neanche tempo di fare fatica. Atterrare correndo, come dicono in inglese.
Qaseem Waleed come l’hai conosciuto?
Avevo letto su Al Jazeera alcuni suoi articoli in cui da giovane scienziato, usando metafore della scienza anche complesse come il gatto di Schrödinger, riusciva a prendere l’immaginazione e a farti soffrire di nuovo mentre rischiamo di essere assuefatti dal numero di morti, non riusciamo più a sentire il dolore e la rabbia. Gli ho chiesto allora di scrivere un podcast per una mia piattaforma, ha scritto un testo bellissimo e poi un designer invece di fare un sound design col violoncello accorato ha fatto una cosa di fantascienza con un sintetizzatore, rompendogli la voce. Una modalità molto gazawi, palestinese, che con irriverenza e genialità riparte dalle cose distrutte e dolorose per andare avanti. Siamo rimasti in contatto e mentre navigavo mi mandava i video: ci invitava a pranzo a casa a sua ma non ha più la casa, mi offriva la la maqluba di sua madre (un piatto palestinese, ndr) ma non c’è cibo. Nell’ultimo video, la notte dell’intercettazione diceva: ‘Non posso credere che lo sto dicendo ma penso davvero che ce la potreste fare’. Sapevano come noi che era molto difficile. Poi quando sono tornato ci siamo parlati, lui non aveva mai fatto videochiamate dal 7 ottobre, ci siamo parlati per 4 ore, ogni volta cadeva Zoom e doveva riattivare la connessione.
Sei andato tante volte in Palestina?
Ero andato a Ramallah per la Qalandiya International, una biennale d’arte, nel 2015, e poi a gennaio.
Altre flottiglie in passato mai?
No, io non sono un attivista. Finora avevo sempre lavorato con la scrittura, con la cultura. Ero in Bosnia nell’estate del ’24 con l’angoscia per Gaza e stare a Sarajevo, dove la gente ti parla ancora dell’assedio e della guerra, mi ha mandato in crisi. La storia non è una tragedia dopo l’altra, ci sono momenti che definiscono il nostro tempo e chi siamo noi. Mi sono reso conto che sulla guerra jugoslava ho scritto poesie, avevo 17/18 anni, non ho mai pensato di metterci il corpo, di fare qualcosa. E mi sono promesso che non sarebbe più bastato, in una poesia ho promesso che mi sarei alzato e sarei andato. Dopo il 7 ottobre c’era solo l’International solidarity movement per andare, a Ramallah ci hanno fatto un training serio: chi sono i coloni, che proiettili usano, ogni venti minuti dicevano ‘voi potete morire’… Abbastanza tosto. Sono andato a nord nella valle del Giordano, dove ci sono gli ultimi degli ultimi, le famiglie di beduini che fanno il lavoro di uno Stato: papà, mamma, dieci figli, cento capre… quando li fanno fuori la terra viene presa. E loro stanno lì, sanno che non c’è speranza ma resistono. È stato il mio primo gesto da attivista, col tuo passaporto svizzero ti metti in mezzo, come gli italiani che hanno picchiato adesso, cerchi di de-escalare la violenza e di documentare. Poi ho fatto il tentativo della Global March a giugno in Egitto e gli svizzeri mi hanno chiesto di essere responsabile di una barca della Sumud.
Scrivi che c’erano pochi intellettuali e artisti sulle barche, forse è anche vero se pensiamo a figure tradizionali. Ma perché?
Persone colte e creative ce n’erano tante, scrittori o artisti visivi meno. Ho visto attivisti puri e poi le dimensioni legate all’Islam o alla Malesia, gli influencer, ma artisti nel senso delle arti liberali ne ho incontrati pochi. Almeno così mi è sembrato.
Si prepara un’altra Flotilla ancora più grande per la prossima primavera, pensi di andare?
Spererei di no, ho una vita, una figlia, genitori vecchi. Però questo finto cessate il fuoco, il fatto che la gente ci creda… La Svizzera italiana è un contesto piccolo, musone e lamentoso, eppure abbiamo smosso dal torpore e dall’apatia masse di ogni generazione, di ogni estrazione. Dovunque mi fermassi c’erano dieci persone che venivano: chi piangeva, chi mi abbracciava, chi mi insultava perché non aveva dormito tre notti… È durato per settimane e ancora adesso succede.
L’hai scritto nel libro: non siamo eroi, semmai lo sono i gazawi che trovano pure la forza di solidarizzare con noi…
Quella è la cosa più incredibile. Non solo la loro resistenza in questi due anni e in questi 77 anni. E non solo che con la loro coerenza e sumud offrono uno specchio al mondo in cui individui e società vedono riflesse le proprie ipocrisie e le proprie inadempienze. Ma anche il modo in cui resistono, con delicatezza, cura, humour, generosità per il mondo che, così spesso, quello specchio lo usa solo per mettersi un po’ più di cipria. C’è una parola araba che riassume questo ed altro: adab. Letteratura, buone maniere, etica, delicatezza. È il titolo dell’ultima parte del libro.
Ma insomma ti rimetteresti su una barca per Gaza?
Tante persone sono state toccate e ora invece l’opinione più ampia si sta di nuovo riaddormentando. Questo rende necessario per chi ci è passato, per chi inizia avere qualche conoscenza su come può funzionare una Flotilla, essere di nuovo in prima linea.
Con tante barche è anche possibile che qualcuna passi e arrivi a Gaza.
Sì, è possibile, ma è anche possibile che qualcuna la affondino. Un giornalista di Arabiya, che era imbarcato e poi è sceso durante l’attesa estenuante in Sicilia, mi ha detto che la strategia israeliana era di colpirne uno per educarne cento. Sarebbe potuto succedere, secondo fonti che ritiene affidabili, se non avessero fatto l’errore dei cordoni incendiari e non si fossero mosse, di conseguenza, le diplomazie sottotraccia e le fregate mandate da Italia, Spagna e Turchia. Non sono sicuro che un’altra Flotilla avrebbe la stessa attenzione mediatica della prima. Le fragili barche arcaiche che vanno contro il mostro erano un gesto poetico e ha funzionato. Le Mille Madleen che sono andate dopo di noi, più fighe e con più artisti, molto meno. Ma funzionerà ancora una narrazione così simile? Vedo che c’è anche un altro progetto di portare lì cinque grandi navi con molti medici. Si passerebbe da un discorso poetico, le fragili barche con sopra i civili, a Grey’s Anatomy: cosa c’è di più giusto che portare lì medici, infermieri e farmaci? Io voglio esserci, ma vorrei anche una riflessione. Questa volta c’è tempo.
Ultima cosa: la parola Cipro non c’è mai nel libro…
Cipro? Vuoi dire cipria? (ride, ndr)
Mentre in Italia e nella delegazione italiana si parlava molto di Cipro, del tentativo cioè di portare gli aiuti umanitari lì dirottando la Flotilla, l’organizzazione nel complesso non ha mai preso in considerazione questa ipotesi. Sulla tua barca non se n’è neanche parlato?
Non avremmo accettato, saremmo andati dritti. È cipria, è far finta di trovare una soluzione. Lo sai tu e lo so io che gli aiuti umanitari c’erano, erano importanti e però erano simbolici. Erano fermi allora e sono fermi ancora adesso al valico di Rafah. La questione non era ‘dateci gli aiuti che li portiamo noi’: era aprire il corridoio e poi gli aiuti veri sarebbero arrivati.
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