Suicidio, la prima causa di morte tra i giovani in Europa: allarme smartphone e isolamento sociale

  • Postato il 4 novembre 2025
  • Di Panorama
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È la principale causa di morte giovanile in Europa, ma quasi non se ne parla. No, non stiamo parlando di droghe, alcool né dei pur assai letali incidenti stradali. Stiamo parlando del suicidio, piaga che un recente report dell’agenzia Eurofund, intitolato Mental health: Risk groups, trends, services and policies e basato sul 2021, ha rilevato appunto essere la prima causa dei decessi dei giovani tra i 15 e i 29 anni, riguardando quasi uno su cinque di essi (18,9%, pari a circa 5.000 casi) e superando, così, la già vasta quota di giovani vite (16,5%) perse a causa degli incidenti stradali. In generale, gli aumenti più significativi del fenomeno hanno riguardato le donne sotto i 20 anni e gli uomini sopra gli 85, anche se indubbiamente esso tocca soprattutto il sesso maschile, che sconta una probabilità di suicidio 3,7% più elevata della controparte femminile, che pure risulta più propensa a segnalare i propri disagi mentali e a cercare aiuto.

Ma a preoccupare è soprattutto il dilagare giovanile del suicidio, del quale ormai anche la stampa ha preso coscienza. Il 20 ottobre sulle colonne del Guardian Tobi Thomas ha firmato un articolo che riporta come, in Inghilterra, «i tassi di suicidio tra i giovani» siano «aumentati del 50% in 10 anni». Le cose non vanno meglio in Germania dove Diane Kotte, coordinatrice nazionale di [U25] – un servizio di prevenzione che può contare su 330 volontari -, ha confermato come i tentativi di suicidio siano più frequenti tra gli under 25 e che il suicidio sia, da quelle parti, la seconda causa di morte più comune della categoria. Anche in Francia, dove la situazione apparentemente è stabile, sono in netto aumento (+24%) i casi di ragazzine tra gli 11 e i 17 anni coinvolte in tentativi di suicidio o autolesionismo e l’opinione pubblica è ancora sconvolta dal suicidio, avvenuto nei giorni scorsi nella Mosella, di Sara una bambina di appena 9 anni trovata impiccata in casa sua: faceva la quinta elementare e ha lasciato anche un breve biglietto di addio alla famiglia.

E l’Italia? Anche qui la situazione è grave. Quasi 7.000 persone, lo scorso anno, hanno chiesto supporto perché attraversate dal pensiero del suicidio, fenomeno in aumento se si pensa che si è passati dai 3.680 casi del 2019 ai quasi 4.000 (3.934) del 2022. Una crescita che ha interessato tutte le fasce di età, ma risultata assai vistosa tra i giovani, dove dal 2020 al 2021 – in un solo anno – l’impennata registrata è stata del 16%. Certamente la pandemia, i lockdown e l’isolamento sociale hanno a questo proposito avuto un ruolo, ma sarebbe ingenuo attribuire ad un solo evento la genesi multifattoriale di un fenomeno, come si è poc’anzi visto, di portata internazionale. Dunque, che fare? Appare evidente, dinnanzi ad una situazione simile, la necessità di interrogarsi seriamente su quali possono essere i fattori di rischio intercettabili per prevenire gesti estremi.

In estrema sintesi, tra le principali cause dell’ideazione suicidaria troviamo quattro elementi. Il primo sono dei disagi e problemi di salute mentale, dalla depressione all’ansia, fino al disturbo bipolare; in secondo luogo, ci sono gli eventi traumatici e le situazioni di stress prolungato; in terza battuta, un ruolo lo svolge l’isolamento sociale – con le conseguenti solitudine e mancanza di supporto -; infine, certamente a peggiorare la situazione può esserci l’uso di droghe o alcol. A questi fattori di rischio, ne vanno sommati e considerati almeno altri due degni di nota.

Il primo riguarda le dinamiche familiari e, in sintesi, il fatto che i figli di genitori che si sono tolti la vita corrono un rischio assai più elevato, purtroppo, di seguire tali orme. Uno studio prospettico pubblicato su Jama Psychiatry – effettuato monitorando tra il 1997 e il 2012 la situazione di 701 figli (età media 17,7 anni) – ha portato i suoi autori a concludere come una storia di tentativi di suicidio da parte dei genitori comporti un rischio quasi cinque volte maggiore di tentativi di suicidio nella prole a rischio di disturbi dell’umore, anche dopo aver tenuto conto della trasmissione familiare dei disturbi dell’umore. Una più recente metanalisi pubblicata nel 2021 sul British Journal of Psychiatry – e realizzata su 20 studi precedenti isolati a partire da un database di oltre 3.600 articoli sul tema –, ha dato una stima più contenuta, rilevando che i figli esposti al suicidio dei genitori hanno una probabilità tre volte maggiore di morire per suicidio e due volte maggiore di tentare il suicidio. Sono evidenze che comunque fanno capire come una buona strategia per contrastare il suicidio tra i giovani sia quella di contrastare lo stesso fenomeno nella popolazione adulta e dei genitori. In aggiunta a quello familiare, rispetto a quelli più tradizionali un secondo ulteriore fattore di rischio – rilevante anche perché emergente proprio in questi anni – è quello legato all’uso nei giovanissimi degli smartphone, uso che molto spesso è strettamente correlato alla depressione e all’isolamento sociale.

Eloquenti, a questo proposito, appaiono le evidenze emerse da un recente studio pubblicato sul Journal of the human development and capabilities e realizzato dalla neuroscienziata Tara C. Thiagarajan e colleghi esaminando i questionari di oltre 100.000 giovani adulti di età compresa tra 18 e 24 anni. Ebbene, ciò che con questo lavoro si è visto è che i bambini di età inferiore ai 13 anni che avevano accesso a uno smartphone scontavano maggiori probabilità di coltivare pensieri suicidi, di avere una minore autostima nonché un distacco dalla realtà rispetto ai coetanei. Più precisamente, il 48% delle ragazze che possedeva uno smartphone all’età di 5 o 6 anni ha dichiarato di avere gravi pensieri suicidi, rispetto al 28% delle ragazze che possedevano uno smartphone all’età di 13 anni o più; analogamente, tra i ragazzi, il 31% di coloro che possedeva uno smartphone entro i 5 o 6 anni ha riferito di avere gravi pensieri suicidi, mentre il 20% dei giovani che possedeva uno smartphone entro i 13 anni o più ha riferito di avere gravi pensieri suicidi. Analogamente, uno studio che ha monitorato oltre 4.000 adolescenti per quattro anni – pubblicato lo scorso giugno su Jama, ed eloquentemente intitolato Addictive screen use trajectories and suicidal behaviors – ha riscontrato che i soggetti con elevata e crescente dipendenza da telefonini cellulari e social media sono risultati associati a un rischio maggiore di pensieri e comportamenti suicidari.

Non si deve leggere simili statistiche come un tentativo di demonizzare gli smartphone, ovviamente. Tuttavia, se esperti anche italiani del calibro del professor Alberto Pellai incoraggiano il più possibile i genitori a posticipare il regalo di questi dispositivi ai loro figli, ecco, una qualche ragione c’è. Ed ha evidentemente a che fare con il loro benessere e con il contenimento di dinamiche di rischio della salute mentale – oltre che dell’isolamento sociale, dato che spesso le due cose sono collegate – che non debbono assolutamente essere sottovalutate. Non ci si può infatti illudere di contrastare la nuova pandemia suicidaria delegando a terzi un compito educativo che, al contrario, origina ed ha il suo ambito prevalente sempre nella famiglia – come del resto anche le ricerche poc’anzi citate mostrano in modo chiaro. Se si dimentica questo, si corre un enorme pericolo di sottovalutazione.

Autore
Panorama

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