Suicidio assistito: il caso di Laura Santi riapre il dibattito sul fine vita
- Postato il 23 luglio 2025
- Di Panorama
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Le sue sofferenze, a causa di una forma avanzata e progressiva di sclerosi multipla, erano diventate insostenibili: e così la giornalista perugina Laura Santi, di 50 anni, ha deciso di andarsene facendo ricorso al suicidio medicalmente assistito. E’ morta a casa sua a Perugia, dopo essersi auto-somministrata il farmaco letale. Ad annunciarlo è stata l’Associazione Luca Coscioni, di cui Santi è stata per lungo tempo attivista e che ha accompagnato la sua scelta lungo la lunga e difficile strada per ottenere il via libera alla procedura, nei termini stabiliti dalla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale. La giornalista ha lasciato una lunga lettera dove spiega la sua decisione, motivandola con i lunghi anni di sofferenza dovuti alla malattia e alla volontà di “non aggiungere dolore al dolore”. Al suo fianco è sempre rimasto il marito Stefano, che ha commentato dicendo che “Dopo anni di progressione di malattia e dopo l’ultimo anno di peggioramento feroce delle sue condizioni, le sue sofferenze erano diventate per lei intollerabili“.
Il via libera dell’ASL di Perugia alla procedura di suicidio assistito era arrivata solo il mese scorso, dopo più di due anni dalla sua richiesta e a seguito di un lungo e complicato iter legale, comprensivo di due denunce, di diverse diffide e di un ricorso d’urgenza contro l’azienda sanitaria. Nel novembre 2024 la giornalista aveva ottenuto il documento clinico che confermava la sussistenza delle condizioni previste dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, e nel giugno di quest’anno Santi ha ricevuto la conferma della fattibilità del protocollo farmacologico.
E’ la nona persona in Italia a ottenere il nulla osta a questa procedura. Nel nostro Paese il suicidio medicalmente assistito non è legalizzato, ma può non essere punibile in casi eccezionali, in base appunto alla sentenza 242 del 2019 . Questa pronuncia ha fatto seguito al caso di DJ Fabo, accompagnato in Svizzera da Marco Cappato per accedere alla morte volontaria. La Corte ha riconosciuto che, in determinate condizioni, vietare ogni forma di aiuto al suicidio viola i diritti fondamentali della persona. Ma non si tratta di un diritto in generale, né di un servizio garantito automaticamente dal Servizio sanitario nazionale. La possibilità di accedere legalmente al suicidio assistito è strettamente limitata a chi possiede quattro precisi requisiti, tutti indispensabili e da dimostrare attraverso un iter medico-legale molto lungo e complesso.
Il paziente deve avere capacità di intendere e di volere, quindi deve essere lucido, consapevole e capace di prendere decisioni autonome. Questo significa che non può trovarsi in stato di incoscienza, né essere affetto da patologie che compromettano la sua capacità di comprendere e valutare la scelta che sta compiendo.
Deve essere affetto da una malattia grave, cronica e irreversibile, senza possibilità di guarigione, quindi trovarsi in una condizione che compromette profondamente la qualità della vita, ma che non necessariamente porta alla morte imminente.
Deve sperimentare sofferenze percepite come intollerabili, che possono essere sia fisiche sia psichiche.
Infine, la persona deve essere mantenuta in vita grazie a trattamenti sanitari. Questo include, ad esempio, ventilazione meccanica, nutrizione artificiale o altri dispositivi salvavita. Questa è la condizione più controversa, perché esclude molte persone con malattie gravissime ma che non sono dipendenti da macchinari.
Inoltre, secondo l’attuale interpretazione attuale della legge, il suicidio assistito prevede che sia il paziente stesso ad assumere il farmaco letale. Quindi l’assistenza medica può limitarsi alla preparazione del farmaco, ma non alla somministrazione diretta, che resterebbe un reato. Sull’argomento c’è grande dibattito, perché il paziente totalmente immobilizzato rimane così escluso dalla possibilità di accedere al suicidio assistito.