Stuporosa, il lamento tra vita e morte

  • Postato il 3 agosto 2025
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Il Quotidiano del Sud
Stuporosa, il lamento tra vita e morte

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Il coreografo premio Ubu Francesco Marilungo ospite a Soveria Mannelli al Festival del Lamento dove andrà in scena il suo spettacolo “Stuporosa”


A Soveria Mannelli, nel bel mezzo della Calabria, è tornato il Festival del Lamento, giunto alla sua terza edizione estiva. Un rito collettivo, una festa di comunità, una rassegna culturale che esalta e irride il lamento e ci costruisce attorno un palinsesto di eventi che richiama da ogni parte d’Italia giornalisti, scrittori, musicisti, artisti e attivisti. Il Festival del Lamento gioca e riflette su una tipica abitudine calabrese – che in realtà appartiene a tutti gli esseri umani – trasformando i lamenti individuali in un’esperienza collettiva attraverso la condivisione pubblica e il coinvolgimento degli abitanti. Chiuderà il festival, il 4 agosto, Stuporosa, spettacolo del coreografo Francesco Marilungo, nato a Montegranaro ma residente a Milano. Lo spettacolo ha vinto il premio UBU 20240

In Stuporosa, come per certi versi avviene nel pianto rituale, si assiste a una stilizzazione del pathos, una sua de-isterizzazione. E la performance in sé vuole essere un invito a riflettere sullo stato di lutto, sulla necessità umana di un istituto culturale condiviso, di un rito comunitario, per superare momenti di crisi individuali. Abbiamo avuto modo di conversare proprio con Francesco Marilungo.

Come nasce il progetto Stuporosa, che andrà in scena anche qui al Festival del Lamento?

«Si tratta di un progetto che ho iniziato a pensare durante il periodo del lockdown causato della pandemia, quando eravamo rinchiusi in casa. Fu un fenomeno molto forte per l’essere umano che è stato messo a confronto in maniera crudele e feroce con la morte, proprio perché non c’era la possibilità di elaborazione e superamento del lutto. Il singolo individuo stava nella propria solitudine e nonostante questo la gente continuava a morire e non c’era la ritualità che di solito è presente nel superare il lutto e riprendere la propria quotidianità. Poi oggi viviamo un periodo terribilmente triste con le varie guerre nel mondo e anche le morti in mare, che sono anche quelle dei lutti irrisolti, senza corpo, e l’essere umano si trova nell’assenza del cordoglio. Tutto questo è nato dalla mia passione per il lavoro del grande etnografo Ernesto De Martino, soprattutto su quello che è “Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria”. Si tratta di un testo che ha segnato la ricerca etnografica e che va dall’antichità fino alla contemporaneità, consapevoli che ci sono ancora zone del nostro sud dove si fa lamento funebre. Il mio lavoro nasce da questo. E da varie ricerche che ho fatto in giro per il mondo, sono stato in India, acquisendo poi il fatto che la ritualità funebre è presente in tutte le parti del globo, dall’Africa al Sud America, dall’Islanda all’outback australiano. Si tratta di un archetipo per l’essere umano, la lamentazione del dolore come mimesi e quindi superamento del lutto. Quindi quello che ho voluto fare è stato partire dalla pandemia per arrivare al recupero di quel senso di comunità per condividere il lutto e la sua gestualità».

Quanto è forte il tuo legame con gli studi di un grande etnografo come Ernesto De Martino?

«Si tratta di un legame naturalmente fortissimo. Come ho detto sono un suo grande estimatore . Ho letto e studiato anche i suoi altri testi fondamentali, come Sud e Magia, o quello sull’apocalisse. Io sono partito dalle sue ricerche per leggere e studiare anche gli altri antropologi funebri, però lui rimane la mia pietra angolare. Lo stesso termine Stuporosa è una citazione-omaggio a lui. Si tratta, infatti, di un aggettivo che lui stesso usa. In pratica, secondo De Martino, nel momento in cui l’essere umano va incontro a una crisi di cordoglio e perde una persona, può incorrere in due stadi. Il primo è un eccesso di abitudine stuporosa che lo porta alla catalessi, lo stupore in senso latino, che ricorda la trance. Il secondo, invece, è il planctus irrazionale, durante il quale si compiono gesti parossistici che portano anche ad autoinfliggersi dolore e danni fisici. De Martino ha tracciato anche una sorta di atlante dell’iconografia della lamentazione funebre, andando dall’antichità greco-romano, concentrandosi poi sul cristianesimo ed arrivando al rinascimento sulle figure di Maria e della Maddalena. Un lavoro che per me è stato fondamentale per tracciare il codice della mia coreografia. Tutto il suo studio sul pathos nelle figure del dolore io ho cercato di traslarlo nel lavoro sul corpo delle performer di Stuporosa. Proprio nella danza torna il pathos che è ancora oggi presente nelle prefiche che sono ancora in varie parti del mondo».

Centrale mi sembra proprio il legame con il fenomeno della possessione che pervade tutte le danzatrici. C’è un percorso che ti ha portato ad indagare questo fenomeno?

«Ognuno di queste donne vive il rito della lamentazione come fosse una trance, come fosse proprio posseduta, e ripete il pianto e la lamentazione come fosse un mantra. Entra, come dice De Martino, in uno stato di concentrazione sognante. Io nel rituale ho cercato proprio questi stati di possessione. Sia attraverso il movimento della danza, sia attraverso la musica ed il canto. Perché durante la performance, voglio ricordarlo, viene suonata e cantata una musica che facilità questo status».

Ti senti di aver rappresentato più la morte o più la vita?

«Io sono convinto che non si possano svincolare le due cose. Vita e morte fanno parte di uno stesso paradigma, della stessa struttura, sono connesse e collegate. Il rituale funebre è, anzi, un omaggio al vivere, al sopravvivere per restare insieme. Si tratta della comunità che si riunisce per affrontare la morte e tornare alla vita».

Ti senti di aver fatto ricerca antropologica attraverso il corpo con il tuo spettacolo?

«Credo proprio di sì. Il corpo è il mio linguaggio, la mia ricerca. Però insieme a questa c’è una fortissima ricerca musicale, grazie a Vera Di Lecce, che suona e canta insieme alle altre performer sul palco, e che viene da una famiglia pugliese che vanta una lunghissima tradizione di ricerca sulla canzone tradizionale salentina. Lei lo ha mescolato poi con la musica elettronica che esegue durante lo spettacolo. Abbiamo cercato quindi di ricreare un linguaggio anche attraverso delle ricerche fatte in tutto il sud ed anche in Sardegna. Scoprendo proprio come queste musiche e questi canti siano delle nenie, delle ninne nanna. Pensa che in Barbagia la prefica ha il nome di tittadores, cioè di colei che dà la tetta da latte al morto. Si tratta di una ricerca che tra l’altro ho utilizzato per il mio prossimo lavoro sulla magia, sulla tradizione delle magare. Ho girato molto in Calabria per questo, dove c’è una profonda tradizione su questo, anche a Soveria Mannelli, che è la sede del Festival, ma anche in altre località, come San Fili, Pittarella, in Arberia e in altre parti. Lo spettacolo si chiamerà Cani Lunari e debutterà il 6 settembre a Soverato all’Ira Platform».

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