Striscia di Gaza: l’ennesimo doppio gioco di Hamas e la linea dura di Israele
- Postato il 4 settembre 2025
- Di Panorama
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Mentre le Forze di Difesa Israeliane (IDF) completano i preparativi per una nuova offensiva su larga scala – l’operazione Carri di Gedeone 2 – Hamas ha diffuso un comunicato in cui si dichiara pronto a un accordo complessivo che includa la liberazione degli ostaggi e la fine delle ostilità. Una mossa che, nelle intenzioni del movimento islamista, mira a presentarlo come interlocutore politico in grado di condizionare il futuro assetto della Striscia.
Il testo, firmato Movimento di Resistenza Islamica – Hamas, recita:
«Il movimento Hamas è ancora in attesa della risposta del nemico sionista alla proposta presentata dai mediatori al movimento il 18 agosto scorso, proposta che è stata accettata dal movimento e dalle fazioni palestinesi. In questo contesto, il movimento ribadisce la sua disponibilità a procedere a un accordo globale che preveda il rilascio di tutti i prigionieri del nemico detenuti dalla resistenza, in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi detenuti dall’occupazione, nell’ambito di un accordo che ponga fine alla guerra sulla Striscia di Gaza, con il ritiro di tutte le forze di occupazione dall’intero territorio e l’apertura dei valichi per l’ingresso di tutte le necessità del settore e l’avvio del processo di ricostruzione. Il movimento ribadisce inoltre la sua approvazione alla formazione di un’amministrazione nazionale indipendente composta da tecnocrati per gestire tutte le questioni della Striscia di Gaza e assumersi immediatamente le proprie responsabilità in tutti i settori».
Si tratta di un documento che, oltre a rilanciare l’ipotesi di uno scambio di prigionieri, mette al centro la prospettiva del “day after”: Hamas non intende essere escluso dalla fase post-bellica, e la proposta di un governo tecnico indipendente appare come un modo per garantirsi un ruolo indiretto, aggirando l’obiettivo israeliano di eliminarne l’influenza politica. La risposta da Gerusalemme è stata netta. L’Ufficio del Primo Ministro ha ribadito che la guerra può terminare immediatamente solo a precise condizioni: «il rilascio di tutti gli ostaggi; il disarmo di Hamas; la smilitarizzazione della Striscia di Gaza; il controllo di sicurezza israeliano a Gaza; e l’istituzione di un’amministrazione civile alternativa che non indottrini al terrore, non diffonda il terrore e non minacci Israele». Una linea definita necessaria per «impedire ad Hamas di riarmarsi e di ripetere il massacro del 7 ottobre ancora e ancora». Il ministro della Difesa Israel Katz ha rincarato la dose, liquidando la dichiarazione di Hamas come «parole vuote». Secondo Katz, l’organizzazione dovrà scegliere tra due alternative: accettare le condizioni poste da Israele o vedere Gaza ridotta «all’equivalente di Rafah e Beit Hanoun», già devastate dalle operazioni militari. «Le IDF si stanno preparando a pieno regime», ha aggiunto. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ribadito che Hamas non può trattenere ostaggi come strumento di pressione e che l’unica soluzione accettabile è un accordo globale che garantisca la liberazione dei 48 prigionieri ancora nelle mani del movimento e la resta totali dei jihadisti.
In parallelo, fonti di intelligence hanno riferito del rafforzamento delle misure di sicurezza attorno ai leader di Hamas che vivono all’estero, in particolare in Qatar, Turchia ed Egitto. Una decisione che riflette la crescente preoccupazione per possibili operazioni mirate da parte di Israele contro la dirigenza del movimento, in linea con precedenti azioni del Mossad in diversi scenari internazionali. Il ruolo dei mediatori regionali appare sempre più complesso. Il Qatar resta il principale sponsor politico e finanziario di Hamas, l’Egitto cerca di mantenere aperti i canali di comunicazione per non perdere la sua storica funzione di ponte tra Gaza e Israele, mentre la Turchia di Erdogan continua a ospitare figure di primo piano del movimento, offrendo copertura diplomatica e logistica. Tutti e tre hanno interesse a evitare che Israele imponga un “day after” senza Hamas, ma allo stesso tempo non possono ignorare la pressione internazionale per una soluzione che garantisca stabilità e sicurezza. Sul piano geopolitico più ampio, la guerra a Gaza resta un nodo cruciale: per Israele rappresenta la lotta esistenziale contro un’organizzazione che il premier Netanyahu continua a paragonare a giusta ragione all’Isis; per Hamas è la sfida per mantenere un’identità politica e militare anche di fronte a una sconfitta sul terreno.La questione degli ostaggi rimane il cuore di tutto. Hamas li utilizza come leva negoziale per strappare condizioni migliori, mentre Israele non arretra sulla richiesta di liberazione completa come prerequisito per ogni intesa ma una cosa è certa: Il tempo a disposizione di Hamas è finito.