Stellantis rischia con la stretta minacciata da Trump sui dazi alle auto dal Canada: la corsa di Elkann a riattivare le fabbriche può non bastare
- Postato il 11 marzo 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Sono bastate ventotto parole per affondare Stellantis in Borsa. La minaccia di nuove e più profonde ritorsioni nei confronti del Canada da parte di Donald Trump ha mandato in tilt il titolo del gruppo, i cui affari negli Usa sono appesi a un filo. Così quando l’inquilino della Casa Bianca ha illustrato le sue intenzioni successive al 2 aprile, si è aperto il baratro. “Aumenterò in modo sostanziale le tariffe sulle automobili che entrano negli Stati Uniti, il che, in sostanza, farà chiudere definitivamente l’attività di produzione di vetture in Canada”, ha detto il tycoon chiedendo al Paese degli aceri di abolire le “altre tariffe ingiuriose e di lunga durata”.
La ritorsione avrebbe un riflesso immediato sull’industria automobilistica, non a caso le azioni del comparto hanno subito risentito dell’intimidazione. La peggiore? Proprio Stellantis. Il perché è presto spiegato: mentre le vendite della casa costruttrice fanno acqua da tutte le parti, la piazza americana – patria del marchio Jeep, vera cassaforte del gruppo – è sempre più strategica. E tra i marchi controllati ci sono anche Chrysler, Dodge e Ram, il cui mercato principale sono proprio gli Stati Uniti. Il problema è che il 40% della produzione avviene tra Canada e Messico.
Per esempio, a Windsor, in Ontario, si producono Dodge Charger e Chrysler Pacifica, a Saltillo, nello stato messicano di Coahuila, viene assemblato un altro pick-up di Ram. Non a caso, subito dopo l’elezione di Trump, John Elkann si era mosso in un tentativo di mediazione con la promessa di concentrare gli investimenti negli Usa e riportare la produzione negli impianti statunitensi. “Intendiamo rafforzare ulteriormente la nostra impronta manifatturiera negli Stati Uniti fornendo stabilità alla nostra grande forza lavoro americana”, si era sbilanciato Antonio Filosa, capo delle operazioni in Nord America e considerato un papabile alla successione di Carlos Tavares.
La traduzione pratica sono le quattro mosse che Stellantis ha in programma: la riattivazione dell’impianto di Belvidere, in Illinois, per produrre pick-up di medie dimensioni; l’avvio della produzione del Dodge Durango a Detroit, una nuova linea nello stabilimento di Toledo, in Ohio, e una ristrutturazione della fabbrica di motori di Kokomo, in Indiana, dove già si produce il motore Hurricane 4. Il movimento è necessario per non arretrare su un mercato fondamentale per il rilancio di Stellantis, dopo un 2024 da brividi per vendite e conti. I dazi imposti da Trump, infatti, secondo una stima di Reuters, porterebbero a un sovrapprezzo compreso tra i 3mila e i 7mila dollari dei pick up assemblati in Canada e Messico.
Un costo tutt’altro che marginale che orienterebbe gli acquirenti verso altre case costruttrici meno esposte alle tariffe – come Ford – grazie alla produzione concentrata negli Usa. Finora le auto sono rimaste esentate dai dazi trumpiani se rientravano nelle regole previste dall’Usmca, l’accordo di libero scambio negoziato proprio da Trump nel precedente mandato: il 40-45% di parti core prodotte negli Stati Uniti o Canada e il 75% del totale del veicolo costruito in Nord America erano un compromesso ideale per case come Stellantis. Ora il giro di vite immediato del tycoon rischia di cambiare le carte in tavola e cogliere di sorpresa anche chi, come Elkann, aveva iniziato la strategia di riposizionamento.
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