Stefano Santoro, un lucano alle Nazioni Unite, per vincere la lotta contro la fame
- Postato il 27 ottobre 2025
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- Di Quotidiano del Sud
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                                                                            Il Quotidiano del Sud
Stefano Santoro, un lucano alle Nazioni Unite, per vincere la lotta contro la fame

Dalla Basilicata alle Nazioni Unite, per combattere la fame nel mondo: «I rischi non ci fermano, situazione mondiale grave». Intervista al lucano Stefano Santoro, lead desk officer del Programma alimentare mondiale: «Tanti hanno bisogno di noi»
«Sono andato via molti anni fa dalla Basilicata, lì ho la mia famiglia e i miei amici ma, dal punto di vista lavorativo, non ho contatti con la mia terra». Perché c’è stato il mondo intero nel destino professionale di Stefano Santoro, giovane potentino Lead desk officer del World Food Programme. Un ruolo al quale è approdato toccando con mano le sofferenze più atroci dell’essere umano, guardando negli occhi i drammi degli esodi forzati, dell’insicurezza alimentare e delle speranze lontane. Quelle che, come operatore prima e coordinatore poi, cerca di restituire a chi rischia di vederle svanire per sempre: «Non si fa questo lavoro per prestigio – ha raccontato a L’Altravoce – Quotidiano della Basilicata – ma per un imperativo umanitario».
Stefano Santoro, dalla Basilicata al Wfp: come è iniziato il percorso?
«Lavoro con il Wfp ormai da molti anni ma vi sono arrivato per caso. Ho studiato Scienze diplomatiche a Forlì, quindi il mio percorso era pienamente incentrato sulla carriera diplomatica con la Farnesina. Non ero molto al corrente di ciò che facessero le Nazioni Unite. Ho iniziato dapprima a lavorare con la Commissione europea finché, nel 2013, in una sorta di summer stage, con contratto di due mesi a Roma, ho avuto la fortuna di essere inviato in Mali, dove era in corso una crisi umanitaria molto avanzata».
Da lì, sono seguite altre esperienze significative…
«Sono andato in Iraq nel 2014, durante il periodo dell’Isis, quando sia in quel Paese che in Siria si generarono enormi movimenti di massa. Sono rimasto tre anni, tra Baghdad ed Erbil».
Tra i principali esodi, quello delle comunità cristiane irachene dall’area di Mosul, uno dei più drammatici…
«Lo spostamento dei cristiani fuori da Mosul fu enorme. E ci fu anche quello degli yazidi che, dalla montagna, entrarono nel Kurdistan iracheno».
Con l’esperienza sono aumentate anche le responsabilità?
«Dopo gli anni in Iraq, sono andato in Afghanistan con il Comitato della Croce Rossa internazionale, che nei giorni scorsi ha partecipato allo scambio degli ostaggi a Gaza. Dopodiché, mi sono trasferito in Giordania a lavorare sulla crisi siriana, arrivandovi come capo-programma. Ora, da qualche mese, lavoro nell’ufficio regionale al Cairo, con una funzione abbastanza nuova, che si chiama desk».
Stefano Santoro, quali sono le sue funzioni?
«Sono il leader desk office e mi occupo del coordinamento del supporto ai Paesi del Medio Oriente. Il mio lavoro è gestire le emergenze, supportare il management nelle decisioni strategiche e di cercare insieme delle soluzioni. È un ruolo interessante, nuovo, che ti permette di essere esposto ai problemi critici delle emergenze fino alle operazioni sul campo. Non lavoro più su un Paese in particolare ma, più in generale, opero in una prospettiva regionale».
Al vostro ufficio, quindi, giungono i rapporti di chi opera sul campo?
«Rapporti, informazioni, dati… Tutto ci viene inviato per facilitare le decisioni dell’operatore regionale o dell’organizzazione da Roma. Questo fa sì che, nel momento in cui un determinato Paese mostri necessità urgenti, come organizzazione riusciamo a rispondere in modo tempestivo ed efficace».
Mai come in questi mesi il dramma di Gaza ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica. Qual è la situazione?
«La Palestina ha mezzo milione di persone che vivono in carestia, 320 mila bambini a rischio di malnutrizione acuta. Il contesto è estremamente difficile. Lì esiste un serio problema di accesso. Come Nazioni Unite abbiamo sempre richiesto accesso totale alla Striscia ma, per varie ragioni, c’è stato spesso negato. Eppure i civili non c’entrano nulla con il conflitto tra Hamas e Israele. Quando hai una persona su tre che non mangia per giorni, hai l’imperativo di fare tutto il possibile. Per questo per anni abbiamo chiesto il cessate il fuoco per un territorio in cui tutti hanno bisogno di sopravvivere».
L’ultimo cessate il fuoco è stato d’aiuto?
«Subito dopo abbiamo iniziato a inviare quantità enormi di cibo, attraverso i vari corridoi che riusciamo a creare, 170 mila tonnellate sono pronte per entrare nella Striscia. C’è un flusso continuo di camion che, dalla Giordania o da Israele entrano a Gaza. Non con poche difficoltà e solo a seguito del cessate il fuoco».
Quali sono gli accessi disponibili?
«In questo momento ne stiamo usando principalmente due: quello di Kerem Shalom e un altro a circa metà della Striscia, Kyissufim. Ce ne sono comunque altri ed è chiaro che più accessi vengono aperti e meglio è. Quando il valico di Rafah aprirà, credo avverrà per favorire il movimento di civili».
Come funziona la distribuzione degli aiuti?
«Abbiamo dei camion che si occupano di portare il cibo al confine, su delle piattaforme che vengono poi raggiunte da altri mezzi provenienti da dentro la Striscia, circa 500 mezzi al giorno. Le derrate vengono poi trasferite in apposite warehouse, punti di distribuzione dove i nostri partner sul campo, delle ong, si occupano di distribuirle. Forniamo anche farina e lievito alle bakeries e, nelle ultime settimane, siamo riusciti a mettere in atto dei programmi di sostegno alla popolazione abbastanza variegati».
Qual è la differenza nei sostegni a Paesi in crisi umanitaria o finanziaria, come il Libano?
«Nel caso specifico libanese non c’è un problema di accesso. Da un punto di vista economico e governance politica, il Libano è molto fragile. Questo, però, non ci ha mai impedito di portare aiuti, sia ai rifugiati siriani che alla popolazione in difficoltà economica. I dati sull’insicurezza alimentare in Libano sono importanti ma non come in altri Paesi».
Quelli con conflitti in atto chiaramente…
«In Sudan e Palestina abbiamo dichiarato carestia e registrato i livelli di insicurezza più alti possibili, così come nello Yemen e nel Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo e Afghanistan. Il nostro lavoro è cercare di assistere chi ha bisogno senza mettere in pericolo le nostre vite e senza lasciarsi coinvolgere nelle dinamiche dei conflitti».
E per quanto riguarda le forniture delle derrate?
«Abbiamo dei fornitori a livello mondiale. Chiaramente cerchiamo di prendere fornitori nei posti più vicini ma anche in quelli più economici. Alcuni sono locali, come le banche. In Libano, ad esempio, sono state consegnate Visa ai rifugiati siriani, così che possano disporre di una forza economica piuttosto che ricevere del cibo in modo diretto, come avviene in Paesi più critici».
Stefano Santo, anche per gli operatori il rischio è elevato, eppure sono sempre lì, in prima linea…
«I livelli di insicurezza sono aumentati e le Nazioni Unite fanno molta fatica a operare. Non è mai stato facile ma le sfide dal punto di vista di sicurezza del nostro staff sono aumentate notevolmente. Il che, comunque, non ci ferma nel fare quello che dobbiamo fare. Noi abbiamo un imperativo umanitario e non si pone mai il dubbio di andarsene per non avere problemi».
Il Quotidiano del Sud.
Stefano Santoro, un lucano alle Nazioni Unite, per vincere la lotta contro la fame
 
                         
                     
                                                                                                         
                            