Stefan Zweig esaltò un’Italia cosmopolita, europea già negli anni Venti

  • Postato il 3 maggio 2025
  • Di Il Foglio
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Stefan Zweig esaltò un’Italia cosmopolita, europea già negli anni Venti

Stefan Zweig, viennese ebreo morto suicida in Brasile nel 1942, ha viaggiato per piacere e poi soprattutto per necessità, cioè per sfuggire ai nazisti che si stavano mangiando l’Europa. Ma prima dell’Anschluss e delle svastiche a Parigi, i soggiorni all’estero di Zweig hanno contribuito molto alla costruzione del suo pensiero pacifista, cosmopolita e proto-europeista. Come scrive il prof Arturo Larcati, studioso dell’autore – è l’Italia “la sorgente più importante della Weltanschauung europea, concepita come alternativa al nazionalismo che ha portato alla guerra. Da questo momento in poi l’umanesimo di Zweig acquista una componente ‘solare’”.

Per comprendere l’influenza italiana su Zweig è arrivato un volume edito da Clichy, Il paese dell’armonia, che mette insieme testi in parte inediti dello scrittore (traduzione di Matteo Galli, curatela sua e di Larcati). Ci sono le cose più disparate, dalla prosa letteraria alle recensioni delle opere di D’Annunzio e Sibilla Aleramo, da reportage a Merano fino a una lettera a Mussolini. Tutto ruota intorno all’esperienza italiana di Zweig che, dice, dovrebbero fare tutti i giovani austriaci e tedeschi. “Al solo pronunciare la parola Italia”, scrive, “risuona in tutti noi il concetto di allegra giovinezza”. Un’esperienza, che, negli anni Venti, con i nazionalismi che avanzano, diventa sempre più difficile, ma quasi basterebbe un giro a Roma, a Firenze o al Lido perché questi nazionalismi perdano di valore. “E tra i paesi vicini ormai in pezzi”, scrive nel 1921, “l’Italia, con il sereno splendore del suo cielo, costituisce ancora il più forte presagio d’Europa, la più bella visione di un’arte nuova e necessaria, legata con gratitudine all’antichità, la migliore via d’accesso al mondo eterno”. Come se l’arricchimento culturale, la meraviglia davanti alle rovine dei fori imperiali o davanti alla cupola del Brunelleschi, potessero bastare per sopire chi esalta la supremazia della propria patria. Un po’ l’idea dell’Erasmus, dal Gran Tour dei giovani aristocratici a un quasi forzato bagno nei paesi del continente.


Ma questo è solo uno degli elementi che emergono dai saggi di Zweig. Pensiamo alla qualità degli eventi culturali di un secolo fa quando, oltre a lui, venivano invitati per la “fiera del libro” nel salone dei Duecento di Palazzo Vecchio persone come Giovanni Papini e Paul Morand. Oppure pensiamo a quanto abbiamo rimosso del Risorgimento, relegando i suoi eroi a monumenti, dimenticandoci la vitalità romantica di un Garibaldi – “uno di quei leader che vengono idolatrati in caso di successo, rinnegati in caso di fallimento” – perché in politica “non c’è più voglia di personaggi indipendenti o di soldati liberi”. Si vede anche come i cliché da meme fossero già stati sdoganati in un saggio del 1908, in cui Zweig vede un’Italia operosa, “tutt’altro il paese del dolce far niente, non è il paese dei lazzaroni che ciondolano dentro i quadri, non è terra di fantasticherie ma di fatti”. Anticipando l’estetica neorealista, Zweig esce dal centro delle città in cui si vendono i souvenir, per rendersi conto che l’industrializzazione è arrivata anche lì, a Milano o a Torino, e ci si può affacciare dai tetti per vedere “il vapore del lavoro che fuoriesce da centinaia di ciminiere”. 

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Autore
Il Foglio

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