Squid Game 3 è la stagione più feroce. Ma i veri mostri non stanno nei giochi. Ecco perché
- Postato il 27 giugno 2025
- Di Panorama
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Ci sono storie che si chiudono, e storie che restano aperte come ferite. Squid Game 3 è entrambe le cose. Un prodotto eccellente, stratificato, visivamente potentissimo e narrativamente coerente con la sua stessa crudeltà, ma anche una serie che si ostina a non dare tutte le risposte. Perché in fondo Squid Game non è mai stato un quiz da risolvere: è una lente rotta sull’animo umano. E questa stagione lo urla con la forza della disperazione.
Chi sperava nel ritorno della brutalità improvvisa della prima stagione – quell’effetto sorpresa capace di frantumare lo spettatore – farebbe meglio a cambiare chiave di lettura. Le stagioni 2 e 3 sono un unico corpo narrativo, cucito addosso a Gi-hun come una camicia di carne. Il tempo del trauma è finito. Ora resta solo il suo peso.
Il personaggio interpretato da Lee Jung-jae è svuotato, disilluso, quasi un relitto, e proprio per questo più pericoloso. Non è più l’uomo che vuole uscire vivo. È l’uomo che sa che uscirne è impossibile. Ma sono i comprimari a far saltare il banco. Su tutti, Park Gyu-young: la sua No-eul emerge come uno dei punti più alti della stagione. Il suo arco narrativo – a metà tra la redenzione e l’autodistruzione – è un concentrato di tensione emotiva che travolge ogni scena in cui appare. Fragile, bellissima, spietata. La sua performance è una lama sottile che incide il cuore della serie.
Al contrario, il ritorno dei VIP, quei mascheroni grotteschi e fuori contesto, continua a essere una nota stonata. Un’occasione persa, ancora una volta. In una serie che ha fatto della profondità umana il suo marchio, questi personaggi sembrano arrivare da un’altra narrazione: caricaturali, ridicoli, e persino fastidiosi. Se non fosse per un unico frammento (brevissimo, e legato più a una reazione che a un contenuto), la loro presenza sarebbe totalmente superflua. E in una stagione così intensa, questo stona come un colpo a vuoto in mezzo a una sinfonia.
Ma il cuore di Squid Game 3 resta saldo: i giochi sono solo un pretesto. Una coreografia feroce al servizio di qualcosa di molto più disturbante. Qui, la vera protagonista è la sofferenza. È lei il filo conduttore. Non la vendetta, non l’avidità, non la speranza: il dolore puro, senza catarsi. Le prove diventano sempre più estreme, sì, ma è la capacità della serie di sottrarre il tempo della scelta a rendere tutto più agghiacciante. Non c’è più spazio per pensare. Solo per reagire. E le reazioni, come sempre, rivelano chi siamo davvero.
Alcune sequenze hanno l’eleganza di un quadro e la crudeltà di un’esecuzione pubblica e mostrano una fotografia che travolge per bellezza. Più forte ancora del gioco delle biglie, più silenziosa, più sporca. È lì che la regia tocca il suo apice. Ma non sempre l’equilibrio tiene: in altre scene, il CGI prende il sopravvento e trasforma il dramma, sporcando il realismo emotivo con effetti da blockbuster che a Squid Game non servono e non sono mai serviti.
La verità è che Squid Game non è mai stato davvero solo un survival game. È un’anatomia dell’anima umana, messa a nudo con chirurgica cattiveria. E la terza stagione lo dimostra in modo magistrale.
Hwang Dong-hyuk chiude il cerchio e lo fa con una regia che, se da un lato alza la posta dei giochi e porta la tensione a livelli insostenibili, dall’altro si permette il lusso di rallentare nei momenti più bui, lasciando spazio al dolore, alla colpa, alla memoria.
E poi c’è il nodo Jun-ho, interpretato da Wi Ha-joon. Il suo ritorno, sebbene atteso, non riesce a trovare una giustificazione narrativa forte. Il personaggio vaga tra sotto-trame investigative e momenti d’azione che poco aggiungono al cuore della serie. Forse un prequel sul Frontman potrà spiegare meglio il suo ruolo. Ma qui, nella carne viva del racconto, è un fantasma che rallenta, non arricchisce. Un dettaglio imperfetto che si sposa sapientemente con la lezione che Il Gioco del Calamaro ci vuole impartire. Il cast regge tutto con una forza quasi disumana. Kang Ae-shim strazia nel ruolo della madre che entra nel gioco per debiti non suoi, mentre Jo Yu-ri offre una Jun-hee gravida e dolente, la cui umanità esplode in una delle scene più potenti dell’intera serie.
Abbastanza per far dimenticare i buchi narrativi, come la storia lasciata appesa di Kang Ha-neul, il giocatore 388 della seconda serie.
Alla fine, restano domande. Non sulle regole del gioco, né su chi ha vinto o perso. Ma su ciò che siamo diventati. Su quanto siamo disposti a perdere prima di dire basta. E soprattutto, su come sopravvivere quando anche l’ultima briciola di umanità è stata venduta al prezzo di un futuro.
Chi cerca solo il brivido, i colpi di scena, il sangue, troverà pane per i suoi denti. Ma chi ha capito davvero Squid Game, sa che il vero orrore non sta nei giochi. Sta nelle persone. E in ciò che siamo disposti a fare, pur di non sentirci perdenti.
Squid Game 3 non chiude tutto. Non offre redenzione. Non promette nulla. Ma accende una luce disturbante su quello che siamo. E nel farlo, dimostra che il vero orrore non è morire. È diventare qualcosa che non si riconosce più.
E no, non servono più stagioni per dirlo. Serve solo il coraggio di guardarsi allo specchio. Promossa, con lode amara. E una stretta allo stomaco che non passa.